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giovedì 8 luglio 2021

Di la dal fiume e tra gli alberi: l'8 luglio di Hemingway


Un noto aforisma di Ennio Flajano vuole che i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume. Non sono d'accordo. Dipende da che vita hai vissuto. In tanti si sono accontentati di molto meno - ma non è stato di certo il caso di Ernest Hemingway, che di giorni indimenticabili ne poteva vantare una discreta collezione.
Il primo di questi è datato 8 luglio 1918, il giorno in cui si trovò faccia a faccia con la dentona arrivata sotto forma di shrapnel, una bomba da mortaio progettata per scoppiare all’altezza del suolo e scagliare tutt’attorno migliaia di piccole schegge metalliche utili a straziare i corpi dei malcapitati di turno.
In seguito, vista la popolarità mondiale dello scrittore, tanti - troppi - si sono buttati sul pezzo, raccontando chi in un modo chi in un altro, quel che è accaduto attorno all’una e mezza di notte di quel fatidico 8 luglio e qui, per riassumerlo al meglio e senza fronzoli, al posto di Hemingway: storia di una vita - la biografia scritta da Carlos Baker farcita da troppi e inaccettabili errori (di Baker preferisco il precedente volume: Hemingway. Scrittore e Artista, dove scrive di cose che lui conosce meglio) - ho deciso di appoggiarmi alle più sicure spalle di Giovanni Cecchin, uomo che ha dedicato gran parte della sua vita alla lettura dei documenti di Hemingway (ma non solo) conservati in alcune biblioteche statunitensi, dando poi alle stampe preziosi volumi che analizzano il ruolo dei soldati americani in Italia durante il primo conflitto mondiale.


Dal suo Hemingway Americani e Volontariato in Italia nella Grande Guerra estraggo:


Ma veniamo al “fattaccio” dell’8 luglio. Come appare dal Diario storico-militare del 69° della brigata Ancona, la notte tra il 7 e l’8 fu nervosa: “Durante il giorno tiri di disturbo da ambo le parti. Verso sera violenti concentramenti di fuoco dell’artiglieria nemica specialmente al bivio di Osteria di Fossalta e sulle strade adiacenti. La nostra artiglieria ha controbattuto efficacemente. Tiri di bombarde sull’argine dell’ansa di Lampol, occupata dal 1° Battaglione, specialmente dalle 22 alle 23. Tempo bello...”. Dopo la mezzanotte, con lo zaino colmo di sigarette, cioccolata e col bidoncino del caffè caldo, Ernest va a trovare gli amici di quel 1° Battaglione (quello del ten. [Cesare] Battisti!) “in un posto d’ascolto nella terra di nessuno in riva al Piave”. Era “un luogo in cui non doveva andare, che gli era stato espressamente proibito”, ha precisato allo scrivente Henry S. Villard (e l’ha ribadito nelle sue Memorie). Villard lo seppe nel 1975 dall’ex-infermiera dell’ospedale ARC milanese Agnes von Kurowsky, alla quale l’aveva confidato Ernest stesso. Ne erano convinti anche suoi ex-compagni di Schio. “Alla notizia del suo ferimento, francamente pensammo che fosse tutta colpa sua. Non si va a gironzolare nella terra di nessuno durante un bombardamento...”, ha scritto nel 1969 Emmet Shaw al biografo Carlos Baker.
Il “posto proibito” era un osservatorio e nido di mitragliatrici in calcestruzzo sul greto del Piave, in località nota a Fossalta come “il buso de Burato”, dove il fiume punta verso il paese. È chiaramente identificabile nella ricognizione aerea del campo di battaglia eseguita il 5 luglio dal ten. Vecchioni: è anche visibile il terrapieno che congiunge il “posto” alla retrostante trincea addossata all’argine. Lo scrivente ne ha pure ritrovato foto tra le carte del romanziere a Boston (EH 2559P) e nell’album di Bill Horne a Chicago (la prima, fatta avere a Hemingway da Samuel M. Sturgeon o dal capit. Gamble o da altro operatore ARC; la seconda - meno riuscita - probabilmente scattata dallo stesso Hemingway il 9 dicembre 1918, quando rivisitò Fossalta assieme ad Agnes von Kurowsky - e di cui in seguito - e poi da lui data all’amico Horne). Nel racconto “Qualcosa che mai proverete” si può leggere una resipiscenza o mea culpa di Ernest quando fa dire al capit. Paravicini incontrato a Lampol: “Qui non c’è niente da fare per te. Se tu andassi in giro con qualcosa di buono, gli uomini ti si affollerebbero intorno e ciò significherebbe bombardamento...”. È quel che avvenne.
Ernest e i mitraglieri del I Battaglione devono aver alzato un po’ la voce o fatto del trambusto, captato dagli austriaci sull’altra sponda, che fecero piombare sul posto un proiettile shrapnel. La drammatica “morte al rallentatore” in una fiammata accecante è descritta da Hemingway nella citata lettera ai genitori del 18 agosto e in una indimenticabile pagina di Addio alle armi. Fu investito in pieno dalle schegge. Uno dei soldati con cui stava parlando rimase ucciso. Un altro si lamentava pietosamente. Semisepolto da sacchetti di sabbia e detriti, Ernest era una maschera di sangue, con ferite multiple. Fu a questo punto che si comportò con autentico coraggio, meritandosi la Medaglia d’argento dal Governo italiano. Caricatosi del soldato ferito, s’incamminò per una cinquantina di metri lungo il terrapieno. Individuato alla luce di un bengala e di un riflettore, gli austriaci gli scaricarono una raffica di mitragliatrice che lo colpì alla coscia sinistra e al ginocchio destro. Rialzatosi, percorse un altro tratto e fu investito da una seconda raffica che lo colpì al piede destro e lo fece ruzzolare col ferito dentro la trincea addossata all’argine Regio, dove svenne.
Sul numero delle ferite (200, 227, 237...) e se abbia o no meritato la Medaglia, s’è sviluppata un’intera letteratura che tende a minimizzare tutto; e siamo in attesa che biografi in particolare d’oltre oceano, “informatissimi” delle cose italiane, ci vengano a dire che tutto o quasi è inventato, e che anzi Hemingway nel 1918 non è neppure stato in Italia!
Fu portato al Posto di medicazione di “Casa del sindaco” vicino al cimitero, dove ricevette le prime cure e si ebbe le simpatie del capitano italiano “suo amico” e degli altri addetti sanitari. Quindi, evitando la strada per Osteria bersagliata dall’artiglieria, fu trasferito in barella per viottoli fin dietro i ruderi di Casa Gorghetto vicino allo stradone. Aveva perso molto sangue ed era sotto shock. Circondato da altri feriti e da morti, sotto il martellare cadenzato delle vicine batterie italiane, Ernest aspetta, prega e combatte contro la disperazione, la tentazione di farla finita con la pistola d’ordinanza, come confesserà poi a Frances Pailthorp, un’amica delle vacanze del 1919 (ma il particolare è dubbio: gli operatori ARC non portavano pistola, e se Ernest, contro il regolamento, ne aveva una, l’avrebbe sicuramente persa alla medicazione di “Casa del sindaco”...). Alle prime luci dell’alba un’ambulanza italiana lo porta alla Sezione di Sanità delle scuole elementari di Fornaci, dove gli estraggono 28 grosse schegge e viene imbottito di morfina. Tra i feriti si aggira don Giuseppe Bianchi che, riconosciuto l’amico americano, lo battezza e gli amministra l’Estrema Unzione. Ernest, superato lo shock, è presto padrone di se stesso. Mentre è sdraiato per terra sulla barella gli è vicino un soldato dai capelli bianchi con la schiena appoggiata al muro. Ha l’uniforme stracciata e una fasciatura di emergenza che gli copre il moncherino di un polso distrutto. Ernest gli rivolge la parola: “Nonnino, sei troppo vecchio per questa guerra”. Il ferito, che è abruzzese, di rimando: “Corpo di bacco! Posso morire anch’io, come qualsiasi altro!”
Prima di sera Ernest finisce all’Ospedale da campo n. 162 di Villa Toso di Casier, poco a est di Treviso, gestito dalla Repubblica di San Marino, dove rimane per cinque giorni e si fa un amico: il ten. Giuseppe Barcelloni-Corte, 49 O.P.C. (Obici Pesanti Campali), 145a Batteria. Viene inutilmente ricercato dall’ispettore delle ambulanze capit. Bates e dal magg. Lowell. Ritrovato e più volte visitato dal capit. Gamble, il 15 luglio Ernest viene da lui accompagnato su di un treno-ospedale a Mestre, e tutti e due raggiungono Milano il mattino del 17.


Fin qui lo storico. Ma Hemingway cosa ha scritto in merito? Rimedio subito: qui sotto vi sono le lettere da lui scritte tra il 14 maggio e il 18 ottobre 1918, lettere che coprono il suo passaggio in Italia …e che insegnano non poche cose a ben vedere.



Alla famiglia
New York, 14 maggio 1918
Cari tutti,
ci siamo accampati qui in un albergo [Earle] molto bello di Washington Square. Il cuore di Greenwich Village. È a mezzo isolato dalla 5a Avenue, proprio sulla piazza. Il Gruppo di Harvard è partito questa mattina e noi partiamo martedì prossimo stando alle ultime notizie. Nel frattempo siamo a New York con Albergo e pasti pagati. A ognuno hanno dato un baule da ufficiale, uniformi degli ufficiali americani con tutti i distintivi, il mio nome e l’unità scritti sul baule, cappotto da ufficiali, l’impermeabile, 1 berretto da campo, 1 berretto da parata, 4 paia di biancheria pesante, guanti da autista in pelle morbida, 1 paio di mollettiere da aviatore di cuoio, 2 paia di scarpe da ufficiale, 1 maglione, 6 paia di calzettoni pesanti di lana, 2 camicie kaki, 1 camicia di lana, e un sacco di altre cose che non ricordo. Per ciascun uomo un equipaggiamento che vale molto più di $ 200. Le nostre uniformi sono quelle che danno agli ufficiali dell’esercito americano e sono belle sul serio. I soldati semplici e i sottufficiali devono salutarci. Potremo indossarle appena arriveranno i passaporti e avremo i visti. Ancora non è arrivato nessuno dei passaporti di Chicago. Mi farò fare la fotografia appena indosserò l’uniforme. Ho già messo tutto nel mio baule da ufficiale.
Ho incontrato Ted [Brumback] proprio ieri e qui dormiamo nella stessa camera. C’è un gruppo di ragazzi in gamba nella nostra unità e ce la spasseremo moltissimo. Ted era molto contento che Papà gli fosse andato incontro e molto dispiaciuto di non aver potuto vedervi tutti.
Abbiamo tutto il tempo che vogliamo e non dobbiamo presentarci a rapporto da nessuno. Questa mattina mi sono fatto mettere a posto l’uniforme e poi nel pom. Ted e How Jenkins, Harve Osterholm, Jerry Flaherty ed io siamo andati al Battery e abbiamo visitato l’acquario. Abbiamo perso tempo e siamo saliti sulla Woolworth Tower alta 796 piedi - 62 piani. Riuscivamo a vedere le navi mimetizzate dentro e fuori il porto e vedevamo fin su per l’East River all’Hell’s Gate, e a Hoboken il «Vaterland» usato adesso come trasporto. Ha fatto l’ultimo viaggio andata e ritorno in Francia in 14 giorni. Sono andato su e giù la Riverside Drive e ho visto New York dall’Harlem River a Nord e la tomba di Grant e sono andato dalla Libber of Goddesty [Statua della Libertà] a Sud. C’è un panorama magnifico dalla Woolworth Tower. Appena avrò messo la mia uniforme da ufficiale ho un impegno con la Mrs. e ho già investigato la possibilità della Little Church dietro l’angolo. Sapete, ho sempre pensato di sposarmi se fossi riuscito a diventare un ufficiale. È una nuova disposizione quella che ci fa ufficiali. Siamo una sorta di sottotenenti mimetizzati, come aviatori nel senso che non abbiamo uomini sotto di noi. Il ministero della guerra ha deciso l’uniforme per il servizio all’estero e l’ha fatto proprio prima della nostra partenza 3 o 4 giorni. Ecco spiegata l’attesa per i visti sui passaporti. Scrivetemi qui all’Albergo.
Con affetto, Ernie

Alla famiglia
in mare, c. 27 maggio 1918
Da qualche parte sul les briny
Cari tutti,
be’ stiamo avvicinandoci al nostro porto di sbarco ed entrando in una ben nota zona di sottomarini così vi spedisco questa epistola in modo che per lo meno una possiate riceverla. Pensiero allegro no? Questa è la bagnarola più marcia che ci sia al mondo e magari sto rivelando un segreto militare a dirvelo. Però lo è assolutamente. Provatevi a pensare quale sia la più scassata nave al mondo e saprete quella su cui me ne sto. Abbiamo avuto due giorni di tempo splendido, caldo e calma, solo una piacevole brezza! Proprio come le giornate sul lago Waloon. Poi ci siamo imbattuti in una tempesta che ha sgomberato con grande regolarità le sale da pranzo Mi presentavo per pranzo e stavo bene finché non vedevo il vicino premersi la mano sulla bocca e compiere un improvviso balzo verso la porta e allora il potere della suggestione diventava troppo grande e scattavo anch’io verso il parapetto. Comunque abbiamo avuto due giorni di vera e propria tempesta con la nave che rullava, si coricava di fianco e compiva lunghi e lugubri giri e io ho rigettato soltanto quattro volte. Un record, no? Come state voi tutti compresa la massiccia Ivory e il ben noto Dessie. Ted e io e Howell Jenkins stiamo facendo gruppo e ce la spassiamo. La tempesta adesso è finita e negli ultimi due giorni c’è stato un tempo molto piacevole.
Stiamo anche facendo comunella con due tenenti polacchi. Il Conte Galinski e il Conte Horcinanowitz anche se non si scrive così. È gente a posto. Stare con loro ci ha insegnato che c’è una gran differenza tra polacks e Polacchi. Ci hanno invitato a visitarli a Parigi e faremo una grande festa oui. Dovremmo attraccare dall’altra parte dell’Atlantico tra quattro giorni ormai. Questa la spedirò al porto e sarà l’unica lettera che vi invierò da lì quindi non preoccupatevi. Ci siamo divertiti moltissimo nella piccola vecchia Gotham e siamo ormai dei confermati viveurs di Broadway. La Croix Rouge si è presa cura di noi mentre eravamo lì, e non ci mancava niente. Quelli della Y.M.C.A. che è la stessa cosa qui come a casa e quindi sapete cosa voglio dire, sono onnipresenti qui a bordo. Anche parecchi negri della Y.M.C.A. I Cavalieri di Colombo hanno a bordo parecchi rappresentanti e mi sembrano anche più umani Ted e Jenks e io abbiamo avuto la seconda iniezione l’altro ieri e ho il braccio che a questo punto è quasi fisso. Dovremo farne ancora un’altra. In Francia o in Italia. Ciascuna mi ha fatto star male come un cane. Sono triple tifoidali e parecchio più potenti di quelle che mi avevano fatto a scuola. Poco fa si è fatto vedere un grosso incrociatore americano avviato verso casa e l’abbiamo eliografato e segnalato con le bandierine. È la prima nave che abbiamo visto da quando siamo nell’atlant. È molto bello guardare la sera quando le onde fosforescenti si infrangono contro la prua. Anche la scia è fosforescente e quando c’è mare agitato le creste delle onde soffiano via come scintille da un fuoco all’aperto. Abbiamo visto diversi delfini e anche pesci volanti. Alcuni ragazzi che si sono alzati presto la mattina sostengono di aver visto una balena, però li guardiamo con un certo sospetto.
A bordo il rancio è molto buono però ci servono solo due pasti al giorno. Alle dieci e alle cinque. Caffè e pane duro per colazione se lo vogliamo ma non merita alzarsi per quello. Secondo le ultimissime andremo dritti al nostro quartier generale dopo Parigi e poi al fronte. Per sostituire il gruppo che ha finito il suo turno. I nostri sei mesi iniziano dal giorno che cominciamo a guidare e probabilmente ci porteranno nel bel mezzo dell’inverno. Scrivetemi presso il Consolato americano, Milano, Italia, Italian Ambulance Service, American Red Cross.
Affettuosamente Ernie

A Ruth [Morrison]
Fossalta di Piave, c. 22 giugno 1918
Cara Ruth,
come vanno le cose nell’antico villaggio? Mi sembra tutto un milione di miglia lontano e pensare che quest’ora l’anno scorso avevamo appena preso il diploma. Se qualcuno mi avesse detto mentre stavo leggendo quella scema di profezia che di lì a un anno mi sarei ritrovato seduto davanti a una trincea a venti metri dal Piave e a quaranta dalle linee austriache ascoltando i piccoli sibili su in cielo e i grandi scheeeeeeeek Boom e ogni tanto una mitragliatrice andarsene tick e tack e tock avrei detto, «Va’ a prenderti un altro sorso». Questa è una frase un tantino complicata ma serve a dimostrare che profeta del cavolo ero.
Così sono classificato soto Tenente nell’esercito italiano e ho lasciato il servizio Ambulanze della Croce Rosa Americana un po’ di tempo fa, temporaneamente per farmi un po’ di azione. Non diramare questo alla famiglia che affettuosamente pensa che stia guidando una Ford.
Sono di stanza in una bella casa circa un miglio e mezzo dalle linee austriache. 4 stanze. 2 giù e 2 su. L’altro giorno una cannonata è arrivata attraverso il tetto. Adesso di stanze ce ne sono tre. Due giù e 1 su. Io ero nell’altra. La morale eccola: dormire su. I grandi cannoni italiani ci sono alle spalle e ruggiscono tutta la notte. Quel che mi tocca fare è corrermene a un posto di ricovero Cioè, distribuisco cioccolata e sigarette ai feriti e ai soldati della prima linea. Ogni pom. e mattina riempio uno zaino e prendo il mio macinino, maschera anti-gas e smammo verso le trincee. Senz’altro mi diverto mi pesa però che non ci sia nessun americano. Gente, ho quasi dimenticato come si parla l’inglese. Se Cannon o il vecchio Loftbery potessero sentirmi parlare tutto il giorno l’italiano si volterebbero nelle loro tombe. Gente mi vien proprio la nostalgia per un’occhiata a una ragazza americana come si deve anche se darei le pistole automatiche austriache catturate, i miei elmetti tedeschi, tutta la cianfrusaglia che ho catturata e le opportunità che mi spettano di meritarmi una croce di guerra anche per un solo giro di ballo.
Credi allo scrivente che ti dice che se vuoi fare un’opera buona devi scrivermi all’indirizzo sulla busta, poi mi sarà inoltrata. E, Ruth, se conosci qualcuno che conosco a Oak Park con un minimo di possibilità che mi scriva, tu dagli addosso e promettigli da parte mia che sarò uno di quelli che risponde immediatamente. Non ho ancora ricevuto una lettera dagli States e sono qui dal 4 di giugno.
Mi sono arrampicato fuori questo pomeriggio e ho scattato alcune foto del Piave e delle trincee austriache. Se mi vengono bene te ne manderò qualcuna. L’ora del rancio si avvicina e sono affamato.
Così (sai come mi veniva sempre il nervoso quando avevo da dire addio quindi me la squaglio in fretta, lasciandoti tutta sola con la lettera).
Ernie

Alla famiglia
Milano, 21 luglio 1918
Cari tutti,
immagino che Brummy vi abbia scritto a proposito delle mie sforacchiature, quindi non c’è nulla che possa aggiungere. Spero che il cablo non vi abbia preoccupato troppo ma il Cap. Bates ha pensato che fosse meglio che aveste notizie direttamente piuttosto che dai giornali. Questo perché sono il primo americano ferito in Italia e immagino che i giornali avranno qualcosa da dire in merito.
Qui è una giuggiola di ospedale, ci sono sparpagliate circa diciotto infermiere americane che si prendono cura di quattro ricoverati. Va tutto bene e sto comodo e le mie ferite vengono curate da uno dei migliori medici di Milano. Ho ancora dentro un paio di pezzi, una pallottola nel ginocchio rivelata dai raggi-X. Il chirurgo, molto saggiamente, dopo il consulto ha deciso di aspettare che la ferita nel ginocchio destro si rimargini pulita prima di operare. La pallottola a quel punto sarà alquanto incistita, e lui potrà fare un taglio netto ed entrare sotto il ginocchio. Consentendogli prima di rimarginarsi completamente eviterà qualsiasi pericolo di infezione o che il ginocchio diventi rigido. È saggio, non ti sembra papà? Allo stesso tempo asporterà anche una pallottola dal piede destro. Probabilmente opererà tra circa una settimana perché la ferita si sta rimarginando bene e non c’è infezione. Al Pronto Soccorso mi hanno immediatamente fatto due iniezioni antitetaniche. Tutte le altre pallottole e le schegge sono state rimosse e tutte le ferite della gamba sinistra stanno guarendo bene. Le dita sono a posto e mi hanno tolto le bende. Non ci saranno effetti permanenti per nessuna delle ferite data l’assenza di fratture. Nemmeno nelle ginocchia. Sia in quella sinistra sia in quella destra i colpi non hanno fratturato la patella; una scheggia grande grosso modo come un cuscinetto era rimasta nel ginocchio sinistro ma è stata rimossa e il ginocchio adesso si muove perfettamente e la ferita è quasi guarita. Nel ginocchio destro la pallottola è entrata da sinistra.


Quando riceverete questa lettera il chirurgo avrà già operato e sarà tutto a posto e spero di tornare a guidare nelle montagne verso fine agosto. Ho alcune belle fotografie del Piave e molte altre interessanti. Anche un bel mucchio di souvenir. Sono stato lì per tutta la durata del grande scontro e ho carabine e munizioni austriache, medaglie tedesche e austriache, pistole automatiche da ufficiali, elmetti Boche, circa una dozzina di baionette, pistole lanciarazzo e pugnali e quasi ogni altra cosa cui si possa pensare. L’unico limite al quantitativo di souvenir è la possibilità di portarmeli dietro perché c’erano tanti di quegli austriaci morti e prigionieri che il terreno ne era quasi nero. È stata una grande vittoria e ha mostrato al mondo che magnifici combattenti sono gli italiani.
Vi dirò tutto quanto quando tornerò a casa per Natale. Qui adesso fa moltissimo caldo. Le vostre lettere le ricevo regolarmente. Esprimete tutto il mio affetto a tutti, e ancora a tutti voi.
Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 agosto 1918
Cari tutti,
il che comprende nonna e nonno e Zia Grace. Grazie moltissime per le 40 lire! Sono state molto apprezzate. Gente, ce ne sono state di storie per il fatto che mi hanno sparato! Le Foglie di Quercia e l’opposizione sono venuti oggi e ho cominciato a pensare, gente mia, che forse non mi apprezzavate mica tanto quando risiedevo nel grembo. È quasi bello come farsi ammazzare e poi leggere il proprio necrologio.
Sapete si dice che non ci sia proprio niente di divertente in questa guerra. Difatti non c’è. Non arriverò a dire che è infernale, sarebbe andare un tantino in là dopo il Gen Sherman, ma ci sono state circa 8 volte in cui avrei accettato volentieri l’Inferno, nella speranza che non fosse come quella fase della guerra che stavo affrontando. Per esempio. Nelle trincee durante un attacco quando un colpo centra un gruppo in cui te ne stai. Le cannonate sono bruttine solo quando fanno proprio centro. Con le schegge devi rischiare. Ma quando c’è un centro i tuoi amici ti si schizzano tutti addosso, e dico schizzano a ragion veduta. Durante i sei giorni che me ne sono stato in prima linea, a solo 50 metri dagli austriaci, mi sono convinto di avere una vita per così dire incantata La convinzione in sé non significa molto ma il fatto che la tua vita lo sia sì! Spero di averla. Quel rumore che state sentendo sono le mie nocche che toccano il vassoio di legno.
È troppo difficile scrivere sui due lati del foglio quindi salto.
Be’ adesso posso sollevare la mano e dirvi che sono stato bombardato da esplosivo, shrapnel e gas. Mi hanno sparato addosso con mortai da trincea, fucili e mitragliatrici, e tanto per aggiungerci qualcosa c’era anche un aereo che mitragliava le linee. Non mi hanno mai buttato addosso una bomba a mano, ma una lanciata da un fucile mi è atterrata vicino. Chissà, forse una bomba a mano me la beccherò in seguito. Ora in tutta quella confusione essere colpito solo da un mortaio e da un colpo di mitraglia mentre mi facevo strada verso le retrovie come dicono gli irlandesi, è stata una bella fortuna. Non vi pare, Famiglia? Le 227 ferite che m’ha procurato il mortaio al momento non mi hanno fatto minimamente male, solo i piedi che mi sembravano degli stivali di gomma pieni di acqua. Acqua calda. E poi il ginocchio mi si stava comportando in modo strano. I proiettili della mitraglia mi sono sembrati come se la gamba mi fosse stata colpita da una palla di neve ghiacciata. Comunque m’ha rovesciato. Però mi sono rialzato e son riuscito a portare i miei feriti nella trincea. Poi lì sono per così dire crollato. L’italiano che avevo con me mi aveva sanguinato su giacca e pantaloni e sembrava che qualcuno ci avesse fatto la marmellata di more e poi avesse praticato dei buchi per lasciarci uscire la polpa. Be’ il capitano che era un mio grande amico, era sua la trincea, mi fa, «Povero Hem, presto sarà R.I.P.». Il che vuol dire Riposa In Pace. Capite, pensavano che mi avessero sparacchiato nel petto per via della giacca insanguinata ma mi sono fatto togliere la giacca e la camicia. Non portavo la maglia e il vecchio torace era intatto. Allora hanno detto che probabilmente sarei sopravvissuto. Il che mi ha rallegrato non poco. Gli ho detto in italiano che volevo vedermi le gambe, anche se avevo paura di guardarle. Allora mi hanno tolto i calzoni e le vecchie gambe erano ancora lì ma gente che caos. Non riuscivano a capire come avevo fatto a percorrere i 150 metri con quel peso ed entrambe le ginocchia sforacchiate e anche lo scarpone in due posti. Inoltre più di 200 ferite superficiali. «Oh» faccio io, «mio Capitano, non è niente. In America lo fanno tutti! È ritenuta la cosa giusta non consentire al nemico di accorgersi che hanno catturato le nostre capre!»
Questo discorso delle capre ha richiesto una notevole abilità linguistica ma sono riuscito a comunicarlo e poi mi sono per così dire addormentato per un paio di minuti. Quando sono tornato in me mi hanno portato con una barella per tre chilometri fino al pronto soccorso. I barellieri hanno dovuto faticare mica male perché alla strada stavano bombardando via anche le «interiora». Ogni volta che ne arrivava una grossa, Whee -whoosh- Boom - mi mettevano giù e si buttavano a terra. Le ferite a quel punto mi facevano male come se 227 demonietti stessero piantandomi dei chiodi nella viva carne. Il pronto soccorso era stato evacuato durante l’attacco così me ne sono rimasto due ore in una stalla con il tetto che era stato sparato via, in attesa di un’ambulanza. Quando è arrivata ho ordinato che andasse prima a prendere i soldati che erano stati feriti. Tornò con un carico e quindi mi ci misero dentro anche me. Il bombardamento era ancora piuttosto pesante e alle nostre spalle le batterie continuavano a sparare e i grossi 250 e 350 che ci passavano sulla testa direzione Austria facevano un fracasso come treni. Poi li sentivamo scoppiare dietro le linee. Poi arrivava un grosso proiettile austriaco e lo schianto dell’esplosione. Però noi gliene davamo di più e più grossi di quelli che ci mandavano loro. Poi una batteria di cannoni da campagna cominciava a scatenarsi, appena dietro la stalla - boom, boom, boom, boom e i Settantacinque o i 149 prendevano a frustare sopra le linee austriache e sempre c’erano i razzi e le mitraglie che andavano come tat-a-tat, tat-a-tat.
Dopo una corsa di un paio di chilometri in un’ambulanza italiana mi scaricarono in un pronto soccorso dove tra gli ufficiali medici avevo un sacco di amici. M’hanno dato una iniezione di morfina e un’altra di antitetano, e mi hanno rasato le gambe e estratto circa Venti schegge di cannone 8 che variavano da [disegno della scheggia] a circa [disegno di scheggia] quanto a dimensioni. Han fatto un ottimo lavoro di fasciatura e poi mi hanno tutti stretto la mano e mi avrebbero baciato se non li avessi presi in giro. Poi sono rimasto cinque giorni in un ospedale da campo e quindi sono stato evacuato all’ospedale base qui.
Vi ho mandato quel cablo affinché non vi preoccupaste. È un mese e 12 giorni che sono nell’Ospedale e spero di uscire tra un altro mese. Il chirurgo italiano ha fatto una giuggiola di lavoro sulla giuntura del ginocchio destro e sul piede destro. Ci sono voluti 28 punti e mi garantisce che riuscirò a camminare come prima. Le ferite sono tutte rimarginate e belle pulite e non c’è stata infezione. La gamba destra me l’ha fermata perché la giuntura vada a posto. Ho alcuni souvenir in gamba che lui ha tirato fuori con l’ultima operazione.
Non mi sentirei davvero a mio agio adesso se non avessi un po’ di dolore. Il chirurgo mi taglierà il gesso tra circa una settimana e mi permetterà di muovermi con le grucce tra circa 10 giorni.
Dovrò imparare di nuovo a camminare.
Mi chiedete di Art Newburn. Era nella nostra sezione ma è stato trasferito alla II. Adesso nella nostra sezione c’è Brummy. Non mettetevi a piangere se vi dico che nella mia lontana giovinezza ho appreso a giocare a poker. Art Newburn si illudeva di essere un giocatore di poker. Non scenderò nei malinconici particolari ma l’ho convinto del contrario. Senza aver nulla in mano ho tenuto duro. Ho raddoppiato le sue puntate e gli ho bluffato via un piatto di 50 lire. Lui aveva tre assi e aveva paura di vedere. Prova a raccontarlo a qualcuno che sa il gioco, Pop. Credo che Art abbia detto in una lettera che ha scritto a casa a quelli di Oak Park che avrebbe avuto cura di me. Ora Pop dimmi da uomo a uomo se quello era aver cura di me? No, proprio no. Così vedi che se da una parte la guerra non è divertente durante la guerra di cose divertenti ne accadono molte. Ma Art ha vinto il campionato italiano del tiro al ferro di cavallo.
Questa è la lettera più lunga che io abbia mai scritto a chiunque e non dice neanche tutto. Ricordami a tutti quelli che hanno chiesto di me e come dice Ma Pettingill, «Tenete accesi i focolari».
Buonanotte e abbracci a tutti.
Ernie
P.S. Ho ricevuto oggi dagli Helmles una lettera indirizzata al soldato semplice Ernest H. Quel che sono è S. Ten. o Soto Tenenente Ernest Hemingway. È il mio grado nell’esercito italiano e significa Sottotenente. Spero di essere presto Tenenente.

Al Dr. C.E. Hemingway
Milano, 11 settembre 1918
Caro papà,
le tue lettere del 6 e dell’11 agosto sono arrivate oggi. Sono contento che tu abbia ricevuta quella di Ted e so che sarà lietissimo di avere tue notizie. È arrivato qui dal Fronte appena ha saputo che ero ferito, è qui alla Base e ti ha scritto quella lettera da Milano. È stato prima che mi facessero i raggi alla gamba o mi operassero e così non so esattamente cosa ti abbia detto in merito perché stavo troppo male per curarmene. Spero però che ti abbia detto giusto. Ho ricevuto una sua lettera dal Fronte un paio di giorni fa e stanno spassandosela. La mamma mi ha scritto che tu e lei andavate a Nord e sono sicuro che vi siete fatti una buona vacanza. Scrivimi per bene se per caso hai pescato. Ecco cosa mi fa odiare questa guerra. L’anno scorso a quest’epoca stavo prendendo delle meravigliose trote alla Baia [Horton].
Oggi sono a letto e probabilmente non lascerò l’ospedale prima di altre tre settimane. Le gambe stanno andando benissimo e tutt’e due alla fine saranno assolutamente O.K. La sinistra adesso sta bene. La destra è rigida ma i massaggi e la cura del sole e movimenti passivi stanno sciogliendo il ginocchio. Il mio chirurgo Capitano Sammarelli. uno dei migliori chirurghi italiani, continua a chiedermi se ritengo che sarai pienamente soddisfatto delle operazioni. Dice che il suo lavoro va ispezionato dal grande chirurgo Hemingway di Chicago e quindi vuole che sia tutto perfetto. E lo è. C’è una cicatrice lunga circa 8 pollici sotto il piede e una bella nitida in cima. È così che fanno i proiettili rivestiti di rame quando ti si infilano. Anche il ginocchio è una bellezza. Non potrò mai più portare il kilt, papà. La gamba sinistra, la coscia e il lato sembrano come se un vecchio cavallo fosse stato marchiato e rimarchiato da qualcosa come 50 proprietari. Saranno tutti segni distintivi.
Adesso posso muovermi per le strade un po’ ogni giorno con un bastone e una gruccia, ma ancora non riesco a infilarmi la scarpa destra. Oh, sì! Sono stato fatto tenente e adesso ho le due strisce dorate su ciascuna manica. Per me è stata una sorpresa perché non mi aspettavo niente del genere. Così adesso potrete indirizzarmi le lettere sia come 1st Lieut o Tenente perché il grado vale per la Croce Rossa americana e per l’Esercito Italiano. Credo di essere il tenente più giovane dell’esercito Comunque mi sento tutto intappato con i gradi e la cordicella in spalla e il mio cinturone. Ho anche sentito dire che la mia medaglia valore [sic] d’argento è in arrivo e che probabilmente la riceverò appena esco dall’Ospedale. Inoltre mi hanno fatto sapere dal fronte che ero stato proposto per una croce di ferro prima d’essere ferito a motivo d’una generale condotta pazzoide nelle trincee, suppongo. Così probabilmente verrò decorato con entrambe le medaglie contemporaneamente. Il che non sarebbe poi male.
P.S. Se non è troppo vorrei che tu facessi l’abbonamento al Sat. Eve. Post per me in modo che me lo inoltrino qui. Poi me lo rispediranno dovunque mi trovo. C’è un tremendo bisogno di letture americane quando sei al fronte.
Grazie, Ernie
Sono proprio contento che Hop [Charles Hopkins] e Bill Smith saranno vicini dove potrai essere d’aiuto a entrambi. Sono due dei migliori Amici che ho specialmente Bill. Fallo venire spesso perché so che ti piacerà e ha fatto tanto per me. Probabilmente quando uscirò tornerò per un po’ all’ambulanza perché la banda vuole che vada a trovarli e vogliono fare una gran festa.
L’altro giorno ho ricevuto una lunga lettera da tutti quelli della sezione. Mi piacerebbe tornare all’ambulanza ma per sei mesi non servirò molto come autista. Probabilmente prenderò il comando di qualche appostamento di prima linea sulle montagne. Comunque non preoccuparti per me perché è stato definitivamente provato che non possono uccidermi e andrò dove potrò essere più utile e come sai è per questo che siamo qui. Be’, Ciao Vecchio Scout,
Affettuosamente tuo figlio Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 ottobre 1918
Cari tutti,
la vostra lettera del 24 settembre con le foto è arrivata oggi e, cara famiglia, sono ammirato per le notizie. E le foto sono terribilmente belle. Credo che ormai in Italia tutti sappiano che ho un fratello più giovane. Se solo vi rendeste conto di quanto apprezzo le foto, pop, me le manderesti spesso. Di te e dei ragazzi e della casa e della baia - sono le cose che più mi rallegrano e a tutti piace vedere le foto di tutti gli altri.
Tu, papà, parli di venire a casa. Non verrei a casa prima della fine della guerra neanche se negli States potessi guadagnare quindicimila all’anno - no. Il mio posto è qui. A tutti noi della Croce Rossa qui è stato ordinato di non arruolarci. Sarebbe sciocco per noi tornare a casa perché la Croce Rossa è un’organizzazione necessaria e a quel punto dovrebbero mandare altri uomini dagli Stati Uniti per continuarne il funzionamento. E poi siamo venuti qui solo dopo essere stati respinti per il servizio militare. Sarebbe criminale per me tornare adesso negli States. Sono stato respinto prima di partire dagli States a motivo del mio occhio. Adesso ho una gamba e un piede malandati e non c’è esercito al mondo che mi prenderebbe. Ma qui posso essere utile e me ne resterò finché riesco a zoppicare e c’è una guerra in cui zoppicare. E l’ambulanza non è un lavoro da niente. Abbiamo perso un uomo, ucciso, e un altro ferito nelle ultime due settimane. E quando ti stai occupando dei vettovagliamenti al fronte sai di avere esattamente le stesse possibilità di cavartela degli altri uomini in trincea e quindi la mia coscienza non mi dà patemi a proposito di restare.
Naturalmente mi piacerebbe venire a casa e vedervi tutti. Ma non posso finché la guerra non è finita. E non ci vorrà un tempo terribilmente lungo. Non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi perché è stato provato abbastanza definitivamente che non riescono a farmi fuori. Le ferite non contano. Non mi dispiacerebbe neanche molto restare ferito un’altra volta, perché ormai so com’è. E, sapete, più di tanto non si può soffrire e ti dà una sensazione davvero di soddisfazione essere ferito. È come esser preso a botte per una buona causa. In questa guerra non ci sono eroi. Offriamo tutti i nostri corpi e soltanto pochi vengono scelti, ma questo non significa nessun particolare merito per quelli che vengono scelti. Sono soltanto i più fortunati. Sono orgoglioso e contento che sia stato scelto il mio, ma ciò non dovrebbe darmi nessun merito extra. Pensate alle migliaia di altri ragazzi che si sono offerti. Gli eroi sono tutti morti. E i veri eroi sono i genitori. Morire è una cosa molto semplice. L’ho guardata la morte e lo so davvero. Se fossi morto mi sarebbe stato molto facile. È senz’altro la cosa più facile. Ma la gente a casa non se ne rende conto. Soffrono mille volte di più. Quando una madre mette al mondo un figlio deve sapere che un giorno il figlio morirà e la madre di un uomo che è morto per il suo paese dovrebbe essere la donna più orgogliosa del mondo, e la più felice. E quanto è meglio morire nel periodo lieto della gioventù non ancora disillusa, andarsene in un fulgore di luce, invece di lasciare che il proprio corpo si sciupi e invecchi e che le illusioni s’infrangano.
Quindi, cara vecchia famiglia, non preoccupatevi di me! Non è poi male essere feriti: lo so, perché l’esperienza l’ho fatta. E se morirò, sarò fortunato.
Tutto questo vi suona come il ragazzo pazzo e selvatico che avete spedito nel mondo un anno fa perché imparasse? È un gran vecchio mondo, comunque, e mi ci sono sempre divertito e le probabilità sono tutte a favore di un mio ritorno. Comunque, ho pensato bene di dirvi come mi sentivo. Adesso tra una settimana circa vi scriverò una lettera bella e allegra e lunga, quindi non lasciatevi abbattere da questa. Vi voglio bene a tutti.
Ernie

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Lanificio Cazzola, Schio








Bassano del Grappa


Sul ponte di Bassano
noi ci darem la mano...
ma qui una mano scivola altrove














Ca' Erizzo
Museo Hemingway
e della Grande Guerra













mercoledì 18 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (4 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 292-306

SOTTO IL TROPICO [2]

Durante parecchi inverni che seguirono, Katy ed io passammo gran parte del nostro tempo a Key West. Non erano i Tropici, ma non era neppure troppo lontano. E nessuna prescrizione di medico ci sembrò più gradevole da seguire.
La ferrovia era stata soppressa e ora si arrivava con un ferry, che partiva dal continente, da qualche parte della costa, sotto Homestead. Bisognava prendere tre ferry separati, e poi percorrere delle strade sabbiose che attraversano le isole coperte di arbusti. Ci voleva una mezza giornata ed era un viaggio piacevolissimo; i pellicani si levavano in volo, battendo pesantemente le ali a pelo dell’acqua, piccoli uccelli volavano nel cielo, i gabbiani si dondolavano sui gavitelli, e i muggini saltavano nell’acqua biancastra dei bassifondi.
Hem ed io cominciammo a mettere giù i piani per un viaggio a Bimini, ma fummo sempre costretti, per una ragione o per l’altra, a rimandarlo. La prima volta che eravamo partiti, avevamo a mala pena raggiunto le acque viola della Corrente del Golfo che il vecchio Hem si ferì a una gamba - fortunatamente al polpaccio - col suo fucile, per sparare a un pescecane che si era avvicinato a un pesce pellegrino che qualcuno di noi stava tentando di prendere col rampone.
Fu necessario tornare per portarlo all’ospedale. Katy era arrabbiatissima; non voleva rivolgergli neppure la parola. La gamba di Hem era appena guarita, quando arrivò un pacco per lui da Oak Park. Veniva da sua madre. Conteneva un dolce di cioccolata, dei quadri della signora Hemingway, raffiguranti l’Eden, che voleva che Hem presentasse al Salon nel suo prossimo viaggio a Parigi, e il fucile col quale suo padre si era sparato. Katy, che la conosceva da molto tempo, mi aveva spiegato che la signora Hemingway era veramente una signora molto strana. Hem era l’unico uomo che io abbia conosciuto il quale odiasse veramente sua madre.
Finalmente andammo alle Bahamas, sul primo dei battelli di Hem della serie dei Pilars. La lussuosa zona di pesca che era stata creata a Cat Caty aveva fatto fallimento durante il regresso del primo boom della Florida ed era in disuso. V’era soltanto qualche battello da diporto e qualche altro che faceva la pesca sportiva, ma la piccola isola di Bimini era fuori dal mondo.
V’era una banchina, qualche capanna di indigeni sotto le palme da cocco, e uno spaccio che assomigliava a un bar, dove s’andava a bere il rum alla sera; e v’era una stupenda larga spiaggia, sulla riva lambita dalla Corrente del Golfo. In cima alle dune v’era una residenza ufficiale ed un paio di bungalows battuti dal sole, protetti contro le mosche della sabbia. Katy ed io ne occupammo uno per una settimana, per dare a Hem più spazio sul Pilar.
Avevamo cominciato a chiamare Hem il Vecchio Maestro, perché nessuno era in grado di impedirgli di dettare legge, oppure, qualche volta lo si chiamava il Mahatma, perché ci era apparso una volta, su una barca a remi, con un turbante arrotolato intorno alla testa per proteggersi dal sole. Diventava sempre più capriccioso, ma quando voleva era anche un uomo spassosissimo. La vita ci sembrava ancora a tutti una faccenda comica. Nessuno di noi era tanto matto da non godere di qualsiasi nuova mattana. Bevevamo mica male, ma solo per stare allegri. Prendevamo tutto in gran ridere.
Se non mi sbaglio, fu proprio durante questo viaggio a Bimini che per la prima volta il Vecchio Maestro andò a pesca del tonno. Aveva letto il libro di Zane Grey sulla pesca dei grandi tonni nei sette mari, che è un libro scritto sorprendentemente bene, e voleva quindi superare Zane Grey.
Avevamo preso qualche persico giovane insieme a qualche delfino color d’arcobaleno, all’incrocio della Corrente del Golfo con l’estrema parte del Canale di Hawk. Erano i primi mesi dell’anno, e tutti gli àuguri conclamavano che i tonni correvano quel tratto di mare.
L’isola divertiva un mondo sia Katy che me. Non ci stancavamo mai di passeggiare sulla spiaggia e di osservare il va e vieni dei gamberi che correvano fra le noci di cocco cadute a terra, come dei corridori. Facevamo una quantità di bagni sulla grande spiaggia, nella dolce risacca. Hem era pieno di sprezzo per la nostra collezione di conchiglie.
Ci impossessammo di un simpatico negro, grande narratore di storie, che aveva una piccola barca a vela e ci portava a navigare nelle acque un po’ melmose del Grande Bahama Banck, a pescare la bonite sui bassifondi, fra i banchi di corallo.
Il Mahatma aveva l’abitudine di prenderci in giro per il nostro gusto alle gite in barca a remi, cosa che, diceva, la gente fa prima del matrimonio, non dopo.
I negri di Bimini erano molto divertenti. Inventavano canzoni intorno a qualsiasi evento della giornata. Ogni piccolo lavoro, come il tirare a secco una barca, diventava un evento corale. Fu allora che, per la prima volta, udimmo questa canzone:

La mia mamma non vuole piselli né riso
non vuole olio di cocco.
Ciò che vuole la mia mamma
è brandy a garganella, e champagne.

Inventarono presto dei canti anche intorno al vecchio Hem. Vorrei ricordarne le parole. Tutti i miei ricordi di quella settimana sono punteggiati dei ritmi delle canzoni di Bimini.
In ogni caso, mentre Katy ed io, svergognatamente, facevamo i turisti per l’isola, navigando, remando e passeggiando - tutte occupazioni snobbate dai pescatori seri - il Vecchio Maestro setacciava l’Oceano.
S’era portato tutto l’armamentario per la pesca al tonno e pescava con quella implacabile, persistente impazienza che gli era propria.
Noi eravamo a terra, quando il Vecchio Maestro sostenne la prima battaglia col suo primo grande tonno. Era stato uncinato di primo mattino da un uomo che si chiamava Cook e che era il guardiano di Cat Gay.
Doveva essere un pesce enorme perché, non appena si tuffò, fu necessario dargli tutta la corda possibile. Le mani di Cook erano ferite, squarciate, quando passò la lenza a Ernest che aveva accostato con il Pilar, nel primo pomeriggio. Hem continuò, sulla barca di Cook, e mandò il Pilar a prenderci, di modo che anche noi potessimo assistere alla partita. Ho dimenticato chi fosse alla barra, ma mentre la battaglia continuava, noi seguivamo a velocità ridotta.
Fra il gruppo degli yachtsmen v’era un signore che aveva un grande yacht bianco che si chiamava Moana. William B. Leeds, di una famiglia famosa nel giro internazionale, aveva invitato il Vecchio Maestro a bordo per un drink, un paio di giorni prima. Il Vecchio Maestro era venuto via affascinato dall’ospitalità di Bill Leeds, ma ancor più affascinato dal fatto che Leeds possedeva un fucile mitragliatore Thompson. Proprio in quel momento, un fucile era quanto il Vecchio Maestro desiderava più di ogni altra cosa al mondo.
Fin da ragazzo aveva amato le armi da fuoco, ma ora aveva un interesse tutto speciale per il fucile mitragliatore, perché l’averlo gli avrebbe permesso di combattere gli squali. Bimini era infestata di squali in quella stagione. Venivano fin quasi sulla spiaggia a molestarci, ma soprattutto avevano un modo esasperante di portarti via un pesce già uncinato, proprio mentre tu stavi per portartelo in barca. Il Vecchio Maestro aveva tentato di beccarli a colpi di fucile. Ma, salvo nel caso li si colpisse proprio nel loro piccolo cervello, un colpo di fucile faceva ben poca impressione sul corpo di uno squalo. La notte precedente al giorno nel quale incontrammo il grande tonno, aveva tentato di escogitare ogni sorta di espedienti per indurre Leeds, fra una bevuta e l’altra, a separarsi dal suo fucile mitragliatore. Gli aveva proposto di giocarselo a testa e croce, a poker, o al tiro al piattello. Credo che gli abbia anche offerto di comperarlo. Ma Leeds non ne voleva sapere, era attaccato al suo fucile che, mi disse più tardi, gli era stato regalato dal figlio dell’inventore, che era un buon amico.
Era oramai pomeriggio avanzato quando Katy ed io arrivammo sulla scena del combattimento. Al crepuscolo il tonno cominciò a diventare più debole. Il Vecchio Maestro cominciò a far rientrare il filo. Tutti intorno al filo eravamo molto eccitati all’idea di assistere all’uccisione del tonno. V’era un cerchio di spettatori, ciascuno sulla propria barca, tutto intorno a noi, compreso Leeds col suo fucile, sulla lancia del Moana.
Scendeva la notte. Il vento era caduto, ma all’orizzonte cominciava a manifestarsi una tempesta. Nell’ultima luce del tramonto il Vecchio Maestro fece avanzare lentamente il pesce lungo la barca. Nessuno lo aveva ancora visto. Un uomo era pronto col rampone. Il resto della compagnia, stretti tutti sul tetto della cabina del Pilar, faceva luce sull’acqua con le lampade da tasca.
Improvvisamente lo vedemmo, scuro, immenso, argenteo. Ottocento libbre, novecento, mille, a bassa voce tutti facevano le loro osservazioni, campate in aria. Per parte mia, sapevo soltanto che si trattava di un pesce enorme. Si muoveva lentamente. Sembrava sfinito. L’uomo che teneva l’arpione diede un colpo e lo mancò. Il lampo argenteo sparì. Il mulino del filo miagolò e il pesce si tuffò di nuovo.
Il Vecchio Maestro cominciò a sacramentare sibilando e vociando. Il pesce prese metà del filo; poi il Vecchio Maestro ricominciò a ritirarlo. Qualcosa non andava. Qualcuno suggerì che poteva darsi il pesce fosse morto. Bill Leeds aveva tenuto alla larga gli squali con il suo fucile mitragliatore, ma ora aveva dovuto abbandonare il campo, per paura che un rimbalzo delle pallottole potesse ferire qualcuno. Il Vecchio Maestro continuava a ritirare il filo.
Le nuvole tempestose avevano divorato un terzo del cielo stellato. I lampi modulavano la loro luce ai bordi. La maggior parte delle piccole barche era tornata a riva.
Leeds, dalla sua lancia, ci invitava a venire al riparo sul suo yacht, ma il Vecchio Maestro continuava ostinatamente a ritirare il suo filo. Alla fine, in uno sciacquio vasto d’argento e di spuma, il tonno venne alla superficie a dieci o quindici iarde di distanza dalla barca. Gli squali non lo avevano toccato. Lo potevamo vedere, levigato e maestoso, in tutta la sua lunghezza. Il Vecchio Maestro arrotolava il suo filo a grande velocità; improvvisamente vennero. Nella luce delle nostre lampade potevamo vedere i pescicani screziare l’acqua scura. Come dei siluri. Come motolance. Uno attaccò. Un altro. Un altro. L’acqua divenne scura di sangue. Quando riuscimmo infine a issare a bordo il tonno, non v’era più altro che la testa, la spina centrale e la coda.
Riuscire a portare a bordo del Moana me e Katy fu una vera vittoria, per il Vecchio Hem. Aveva cercato di farsi amico Leeds, forse per il fucile, forse anche perché rispettava la sua grande fortuna. Katy detestava il povero Leeds e di­chiarò che, piuttosto di imbarcarsi sulla sua barca, sarebbe morta. Nel loro gruppo c’era un vecchio spagnolo untuoso e abbastanza equivoco, che noi chiamavamo Don Propina. Tutti e due lo avevamo in antipatia. In ogni caso Ernest vinse. La tempesta divenne così violenta che, volenti o nolenti, non c’era altro da fare che rifugiarsi a bordo della sua imbarcazione. Ci arrampicammo per la scaletta quando già cominciava il primo scroscio di pioggia, che scendeva fitta, quasi orizzontalmente, e ci sedemmo bagnati fradici ad asciugarci sotto le bocche di ventilazione della sala. Ci buscammo, tutti e due, un bel raffreddore di testa, meritata lezione di umiltà.
Leeds, ospitalmente, ci diede ricovero per la notte. Ci ritirammo presto, di modo che non siamo mai riusciti a sapere esattamente come sia andata la faccenda; ma quando, all’alba del mattino dopo, nella luce magnifica, sbarcammo dallo yacht, il Vecchio Maestro teneva l’amato fucile, stretto al petto, fra le braccia.
Senza dubbio Leeds glielo aveva prestato, perché più tardi mi scrisse che non lo aveva regalato a Hem se non due anni dopo, quando il Vecchio Maestro stava per partire per la Spagna, per la guerra civile. A Leeds, fece piacere che l’episodio che avevamo vissuto insieme divenisse il canovaccio del Vecchio e il mare anche se le storie che i nativi delle Isole Canarie avevano raccontato a Hem all’Avana devono assai probabilmente aver giocato, nel racconto, la loro parte. Nessuno certo aveva mai avuto la mano più felice di Hem, nel tentativo di raccontare, approfondendone le radici, una storia di pesca.
[...]
Fu probabilmente durante la primavera successiva che Hem, Waldo ed io affittammo la barca di Bra per andare alle Isole Tortugas. Situate all’estremità occidentale dell’arcipelago delle isole coralline, costituiscono i Keys della Florida. Avevamo fatto il lungo, tempestoso viaggio attraverso i bassifondi, nella speranza d’incappare in uno dei banchi di quei grandi macarelli che, in primavera, si dirigono a nord-est lasciandosi alle spalle il Golfo del Messico. Invece non prendemmo che poco pesce di grande taglia.
Waldo mise il suo cavalletto su una delle fenditure del vasto forte di pietra e là dipingeva. Io mi rifugiai con la mia branda da campo e il mio quaderno in un altro angolo ombroso. Il sole era caldo, l’aliseo era fresco. Il luogo enorme e completamente vuoto.
Ad ogni istante ci si aspettava di vedere uscire da un tumulo il povero vecchio dottor Mudd. Nessun suono, eccetto il querulo strillare delle rondini marine. L’acqua era incredibilmente chiara, delizioso nuotarvi. Non vedemmo né squali né barracuda, soltanto una grande varietà di pesci di roccia, sogliole, persico di mare, triglie, gran quantità di piccole creature delle quali ignoravamo il nome, che si affollavano come gioielli sotto i banchi di corallo.
Un paio di giorni filarono via: fu una delle occasioni in cui compresi il significato della parola alcione. Ernest aveva portato con sé Arnold Gingrich, che aveva lanciato l’«Esquire». Costui si comportava come uno in trance. Questo era un mondo che lui non aveva neppure mai sognato esistesse. Divorato dalle zanzare, sofferente per il mal di mare, bruciato dal sole, inebetito, mezzo sgomento e mezzo beato, era divertente vedere Hem lavorarsi un redattore capo, quanto era divertente vederlo pescare un grande pesce.
Gingrich non distolse mai i suoi occhi affascinati da Hem. Hem arrotolava lentamente il filo, lasciandone abbastanza alla sua vittima. Il redattore capo era uncinato. Naturalmente pubblicherà tutto ciò che Hemingway gli manderà, a mille dollari il pezzo. (A quel tempo nessuno di noi sapeva che avrebbe potuto guadagnare molto di più. Vivevamo lungi dall’ambiente degli agenti letterari e dei grandi pranzi letterari di New York). Ernest stava affinando gli strumenti, che gli avrebbero più tardi permesso di entrare a far parte dell’alta finanza letteraria. Avvolse tanto abilmente Gingrich, che gli vendette anche alcuni miei pezzi, in soprappiù.
Nel frattempo Bra passava il suo tempo a raccogliere conchiglie. I turisti avevano fatto la loro apparizione a Key West. Bra aveva scoperto, con suo gran stupore, che comperavano volentieri le grandi conchiglie rosa e dentellate. Ne aveva la prua della sua barca piena. La notte prima che ripartissimo per Key West, ci fece la migliore zuppa di molluschi che io abbia mai mangiato. Insieme a sogliole fritte, condite con una specie di salsa in salamoia e limone, che lui chiamava Old Sour, costituì un vero festino da re. Irrorammo il tutto con una buona dose di rum Baccardi.
Avevamo accostato a riva, dalla parte opposta al forte. Mentre stavamo mangiando e bevendo, un paio di barche da pesca cubane, che avevano pescato il persico rosso nelle acque fonde, ci accostò. Era gente gagliarda, abbronzata, trasandata e cordiale.
Passammo loro bicchierotti di Baccardi. Lo spagnolo di Hem era diventato nel frattempo molto fluente. Dalla barba di Waldo usciva invece un miscuglio di francese, italiano e castigliano spurio, che gli era servito per anni attraverso tutti i Paesi del Mediterraneo. Bra, che sdegnava le lingue straniere, esprimeva a gesti e grugniti la sua cordialità. Gingrich seduto senza parlare, gli occhi rotondi dallo stupore, ci guardava saltellare come scimmie da una barca all’altra.
Vi furono da raccontare episodi di forza, favole di grandi pesci azzurri uncinati e perduti, di coccodrilli avvistati nel Golfo, di serpenti a sonagli lunghi venti piedi, visti nuotare nei canali verso il mare. La notte calò senza vento. Non v’era luna. I nostri amici si allontanarono, si ancorarono a qualche centinaio di metri da noi, e si ritirarono. Noi lasciammo la riva, alla ricerca di un po’ di vento. Le stelle sembravano grosse come palloncini di Natale, si addensavano sulle nostre teste e si riflettevano nel mare. I tre piccoli battelli sembravano sospesi nel mezzo di un’enorme sfera di vetro azzurra, punteggiata di stelle.
Faceva caldo in cabina. Prostrati dalla calura e dal Baccardi, giacevamo molli di sudore nelle nostre strette cuccette. Il sonno venne in un lampo di arsura.
Fummo svegliati da un bussare sul ponte. Era il più vecchio dei nostri amici cubani, coi capelli grigi, ed era il padrone di una delle barche da pesca. «Amigos, para despedirnos». Gli occhi rossi, le teste pesanti come il piombo, ci arrampicammo sul ponte.
Ci indicò qualcosa. Contro la prima striscia viola di luce a oriente, potevamo distinguere la sagoma di un uomo, sulla prua della barca, che mescolava un qualche liquido in un grande recipiente di vetro. Tornavano all’Avana con la prima brezza. Volevano farci onore con un brindisi di addio, prima di partire.
Passammo tutti sulla stretta passerella di legno dell’imbarcadero. Naturalmente non c’era ghiaccio. La bevanda era quindi tepida, uno zabaglione fatto con dell’aguardiente di poco prezzo che aveva odore d’alcool di legno. Cavammo fuori le nostre coppe di stagno. Eravamo oramai alle strette. Ci sentivamo delicatini in quel momento. La bevanda ci dava il vomito. Ma non potevamo far torto ai nostri amici. Magari morire, ma erano amici e bevemmo.
Fu allora che Ernest portò fuori il suo fucile e cominciò a sparare. Il cielo s’inargentava. Già si sentiva l’ardore del sole oltre l’orizzonte. Tirò a una cassetta di fagioli che galleggiava a metà strada, verso la riva. Lanciammo altre cassette. Tirò anche a pezzi di carta che i cubani gettarono sopra dei legni, dalle loro imbarcazioni. Sparò a parecchie rondini marine. Sparò anche a un palo sulla riva. Sparava a tutto ciò che gli s’indicava. Sparava seduto, in piedi, sdraiato sul ventre. Sparava indietro, e col fucile fra le gambe.
Per quanto ne riuscivamo a vedere, non mancò un colpo. Finalmente fu a corto di munizioni. Bevemmo l’ultimo punch dei pescatori. Gli amigos ci strinsero la mano. Gli amigos ci fecero gesti di addio. Levarono le ancore, issarono le loro vele sporche e veleggiarono, cercando di sfruttare al massimo i primi aliti dell’aliseo, che smuoveva la calura, verso oriente.
Noi prendemmo la direzione di Key West. Sulla via del ritorno incontrammo sui banchi una pesante risacca. Quel poco vento che c’era spirava in poppa. Le conchiglie di Bra avevano cominciato a marcire e puzzavano orribilmente. Il punch ci infastidiva. Avevamo la faccia verde. Avevamo le labbra fredde. Nessuno vomitò subito, ma tutti insieme eravamo una ciurma ben pallida e silenziosa; fino a che raggiungemmo sotto vento le prime basse file di mangli, che stanno nei pressi di Key West.
[...]
Ernest e Pauline si erano comperati una graziosa vecchia casa, con il soffitto alto, a Key West. Pauline era sempre molto divertente, Gigi e il Topolino Messicano erano graziosissimi, ma i rapporti fra me e Ernest diventavano sempre meno facili.
Credo che la colpa sia da dividersi in parti uguali fra me e lui. Katy ed io ne ascrivemmo la responsabilità alle ambizioni letterarie. Il famoso autore, il grande pescatore, il potente cacciatore africano: noi cercavamo scherzosamente di smontarlo. Lo prendevamo in giro non poco, soprattutto le sere nelle quali aveva mal di gola e doveva andarsene a letto prima di cena; gli portavamo da bere a letto e mangiavamo la nostra cena, con i piatti in mano, in camera sua. Lo si chiamava «le lit royal». Non ho mai conosciuto un uomo vigoroso e atletico che passasse tanto tempo a letto, come faceva Ernest. V’erano momenti nei quali le nuvole si rischiaravano e tutto ritornava come ai vecchi tempi. Per esempio, le interminabili cene, a Madrid, ben irrorate, assieme a Claude Bowers, al Botin.
[...]
Katy ed io arrivammo a Key West un bel giorno e trovammo che qualche imbecille di scultore aveva fatto un busto di Ernest. Un calco in gesso stava nel bel mezzo della sala d’entrata. Era un busto orribile. Sembrava di sapone. Non riuscimmo a trattenerci, a tutta prima, dal ridere. Non potevamo immaginare che Ernest invece l’aveva preso sul serio. Durante quell’inverno io avevo preso l’abitudine di mettere, quando entravo, il mio cappello di panama sulla testa del busto. Ernest un giorno mi sorprese. Mi lanciò un’occhiataccia e tolse il cappello dalla testa del busto. Fu imbronciato per tutto il giorno. Nessuno di noi ne fece parola. Ma dopo questo episodio le cose fra di noi non andarono più allo stesso modo di prima.

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