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mercoledì 11 ottobre 2017

Il Beat hotel


Raccontare Parigi non è mai stato facile. Troppe cose sono cambiate, tanti ambienti sono stati distrutti. Per secoli le sue fetide viuzze hanno dato asilo a bande di ladri e assassini. Poi, nel XIX secolo, è arrivato il barone Haussmann a far piazza pulita, radendo al suolo i vecchi quartieri e creando la Parigi di oggi, coi suoi lunghi viali alberati (boulevards) e la sua struttura architettonica di stampo borghese. Un massacro di mattoni e pietre che ha reso difficile “capire” come poteva essere il mondo e la vita delle classi disagiate, da allora sloggiate verso le periferie.

Il viaggio in treno da Milano Porta Garibaldi a Paris Gare de Lyon è come sempre penoso: sono circa 600 km, che un presunto Train Grand Vitesse (TGV) percorre in otto ore. Mi chiedo che farebbe se fosse un Train Grand “Lentesse”… Un’ora e mezza solo per raggiungere Torino Porta Susa…
Deposto il bagaglio, eccomi in pista, giusto per rimettere in circolo la pressione sanguigna. Il cielo è azzurro, il vento rinfrescante. La cattedrale di Saint-Germain-des-Près è subito raggiunta. A lato, in un giardinetto fa brutta vista di sé il monumento che la Mairie de Paris ha dedicato a Guillaume Apollinaire, qui rappresentato dal volto di Dora Maar scolpito da Pablo Picasso. Un monumento voluto dagli amici di Apollinaire e contrastato da beghe locali - dimostrazione di come il popolo goda nel farsi rappresentare dalla più infima tipologia della razza umana, e questo in ogni latitudine del pianeta Terra.
Dentro, la cattedrale è in gran parte chiusa al traffico per lavori di restauro. Nessun problema: sono più di quarant’anni che la frequento, quindi posso sopportare il disturbo, limitandomi ad un nuovo scatto alla statua di Notre-Dame-de-la-Consolation (XIV secolo) e a Davide e Golia - forse il più antico capitello di questa struttura a suo tempo regale.
Punto al lungo Senna. Nel piccolo square Honoré Champion ritrovo il pallido Voltaire. Pochi metri più avanti ecco le panche a forma di libro aperto e la fontana di Fragonard - scolpita nel 1830 per alimentare il mercato des Carmes in place Maubert e qui trasportata nel 1930, otto anni prima della creazione dello square dedicato all’organista Pierné. In un angolo l’implume Carolina, scultura in bronzo di Marcello Tommasi datata 1968, solletica il palato degli amanti delle petites filles à la manière de Balthus.
Seguono rue de Seine (il marciapiede è saturo di merde canine - o dei padroni che poi danno la colpa ai cani?) e rue des Grands-Augustins, dove al numero 7 si apre uno dei portoni a me più noto e caro: qui, tra varie ed eventuali, Picasso realizzò una delle più importanti opere di ogni tempo, non fosse altro per il suo valore civico: Guernica.
Giro a sinistra e mi ritrovo sul quai des Grands-Augustins, con la Senna sull’altro lato della strada. Dirigendomi verso Notre-Dame-de-Paris, a destra imbuco rue Gît-le-Cœur, strada anonima, non fosse per la presenza dell’hôtel a suo tempo abitato da Ginsberg, Corso, Burroughs e gli altri: l’avventura parigina dei Beat - come leggo nel sottotitolo del volume Il Beat Hotel di Barry Miles, un libro dell’anno 2000 stampato in Italia da Ugo Guanda nel 2007. È un libro già da me recensito alcuni anni fa, che qui riprendo proponendo l’intero primo capitolo, pp. 15-33. È un po’ lungo, è vero, ma anticipa molte mie fotografie scattate nei giorni a seguire: tenete queste pagine a futura memoria.
Abbattuto e ricostruito, l’ex Beat hotel è stato trasformato in una residenza a 4 stelle: dalle stalle alle stelle la via è breve, a quanto pare.
La corta rue de l’Hirondelle dà accesso alla place Saint-Michel, ma solo dopo aver superato le forche caudine del portico, spazio ricoperto da macchie di urina, le cui esalazioni rallegrano le mie sensibili narici. Come sempre - o quasi - chiudo la mia giornata in Boulevard Saint-Germaine, dilettandomi nel fotografare i suoi bar e i suoi ristoranti. Domani è un altro giorno …e chi vivrà vedrà.
Intanto, eccovi il testo di Barry Miles sopra promesso:


Negli anni Cinquanta a Parigi la Rive gauche, o Quartiere latino, era quel che Soho era per Londra, il Greenwich Village per New York e North Beach per San Francisco: una zona centrale, poco costosa, dove scrittori e artisti potevano incontrarsi e passare le notti a parlare o a bere, dove gli alloggi spartani non erano cari e i residenti molto tolleranti verso le follie comportamentali dei giovani. L'intrico di stradine fra boulevard Saint-Germain e la Senna ospitava decine e decine di alberghi a poco prezzo, occupati dagli studenti della vicina Sorbona. L'Università di Parigi, vecchia di settecento anni, aveva stabilito ormai una solida tradizione secondo la quale gli studenti che la frequentavano alloggiavano negli alberghetti del circondario. Ci abitavano anche studenti e modelle della École des Beaux-Arts sul quai des Augustins, nonché molti artisti affermati i cui studi si aprivano su cortiletti o stradine laterali, ed erano riconoscibili dai grandi lucernari esposti a nord. Studenti e artisti bohémien vivevano in mezzo a una gran massa di cittadini appartenenti alla classe operaia, quei parigini autentici che ogni mattina affollavano le bancarelle di cibarie di rue de Buci o il mercato coperto a Mabillon e rientravano a casa con la spesa ben prima che i giovani bohémien avessero bevuto un sorso del caffè con cui iniziava la loro giornata.
L'area vicino a rue Saint-Séverin, povera e fatiscente, era tradizionale rifugio dei clochard, che una volta, quando la zona intorno a place Maubert era frequentata da battellieri e omaccioni forzuti, avevano una strada tutta per loro, rue Brève. Negli anni Cinquanta a Parigi si contavano circa diecimila clochard, uomini e donne, che dormivano sotto i ponti o sui tombini nelle piazze, coperti di stracci, scaldati dal calore che saliva dalle fogne, stretti in mucchi sulle griglie di ventilazione della metropolitana dalle quali soffiava l'aria calda stantia.
Nel Quartiere latino si trovavano polverosi negozi di libri usati, gallerie d'arte d'avanguardia, negozietti d'antiquariato, rivendite di prodotti di artigianato etnico e minuscole e affollate sedi di case editrici radicali o di piccole stamperie specializzate in letteratura sperimentale e belle arti. Sul Lungosenna i bouquinistes esibivano stampe sbrindellate e libri consunti in una sorta di scatole fissate al parapetto che di notte venivano chiuse a chiave. In tutte le librerie intorno a rue de Seine e place Saint-Michel si trovavano volumi sul surrealismo, sulla patafisica, sull'occultismo e l'alchimia, sul misticismo asiatico. A volte queste librerie erano nascoste in fondo a qualche cortile o ai piani alti delle case, note solo a una fedele clientela.
C'erano caffè di artisti, come la Palette, dove si poteva incontrare un gallerista per programmare una mostra, ingaggiare una modella o comprare droga. C'erano decine di ristorantini, come il Café des Arts in rue de Seine dove gli allievi dell'accademia sedevano in fila su delle panche; l'unico menu prevedeva tre portate a prezzo fisso, con vino rosso a volontà servito in boccali da litro sui semplici tavoloni di legno senza tovaglia. Un caffè, Chez Raton, era così piccolo che il pane era tenuto in cestini appesi con delle corde al soffitto e bisognava tirarli giù per servirsi. Chez Jean, situato in una stradina laterale di boulevard Saint-Germain, era uno dei pochi ristoranti parigini che avesse ancora la segatura sul pavimento. A volte vi si ascoltava qualcuno che suonava il violoncello o la chitarra. Era frequentato da brutti ceffi ma piaceva anche agli artisti, in una tregua difficile ma tutto sommato duratura. Nel vicinato c'erano anche molti ristoranti cinesi, vietnamiti e nordafricani a poco prezzo, specie intorno a place Maubert e a rue de la Huchette.
Ogni sera su boulevard Saint-Germain si poteva assistere alla passeggiata più affollata di tutta la città, con centinaia di persone che andavano su e giù da place Maubert a place Saint- Germain des Prés, oltrepassando i grandi caffè, come la Brasserie Lipp, il Café aux Deux Magots, il Café Flore, affollati di esistenzialisti e di ricchi turisti che guardavano e si facevano guardare. Alcuni di quelli che passeggiavano si fermavano alla Pergola, appena oltre la fermata Marbillon della metropolitana: aveva anche un menu da cinquecento franchi e rimaneva aperto tutta la notte. Era il principale punto d'incontro per gli omosessuali parigini, uomini o donne. Fra i ragazzi più giovani c'era chi metteva cipria e rossetto, mentre le ragazze più mascoline vestivano da uomo. La Pergola attirava anche gli studenti più nottambuli, e fra questi c'erano parecchi residenti del Beat Hotel, che distava solo due isolati.

Il Beat Hotel si trovava al 9 di rue Gît-le-Coeur, una stretta stradina medievale che scendeva al fiume da rue Saint-André des Arts fino al quai des Augustins, nella parte più antica del Quartiere latino. Nel tredicesimo secolo la strada si chiamava rue de Gilles-le-Queux o Guy-le-Queux (Guy il mendicante). Era nota anche come rue Guy-le-Preux. Col passar dei secoli divenne Gît-le-Coeur: secondo Brion Gysin era un gioco di parole escogitato agli inizi del diciassettesimo secolo da Enrico IV, il primo re di Francia della dinastia dei Borboni, la cui amante abitava in quella strada. Un giorno il re passava di lì e dichiarò «Ici gît mon coeur» (Qui giace il mio cuore). Come molte altre storielle di Gysin probabilmente non è vera, ma è graziosa lo stesso.
In alternativa, una versione che si legge in un'altra guida di Parigi afferma che il nome della strada ricorda l'assassinio di Etienne Marcel, Prevosto dei Mercanti, uno dei Padri di Parigi. La notte del 31 luglio 1358 fu ucciso in questa via da Jean Maillart, un mercenario al soldo del Delfino Charles; gît vuol dire «giace», come si legge sulle iscrizioni tombali, ci-gît, «qui giace».
Come in molte vecchie viuzze del quartiere, le case avevano quattro piani, e mentre il pianterreno incombeva ad aggetto sulla strada, gli altri tre se ne distanziavano nella ripida ascesa verso l'alto. I numeri 5, 7 e 9 furono costruiti verso la fine del sedicesimo secolo, e in origine comprendevano la residenza di Pierre Séguier, Marchese d'O, che in seguito divenne proprietà del Duca de Luynes, zio di Racine. Nel 1933 il signore e la signora M.L. Rachou, una coppia di provinciali di Giverny, vicino Rouen, a nord-ovest di Parigi, avevano acquistato il numero 9 per farne un albergo. Brion Gysin, che negli anni vissuti all'hotel divenne molto amico di Madame Rachou, diceva che avevano solo la gérance, la gestione, e non la proprietà dell'albergo, e questo è molto più plausibile poiché riesce difficile immaginare come la coppia avesse potuto trovare il denaro per acquistare un edificio tanto grande. Il signor Rachou faceva da portiere e da fattorino, era un omone enorme e silenzioso, lento e paziente con i suoi ospiti. La signora era piccola ed energica, le corte braccia di solito conserte sul grembiule azzurro chiaro dal colletto rotondo ricamato - del tipo indossato ogni giorno, tranne la domenica, dalle operaie dell'Ottocento. Lei si occupava del piccolo bistrò al pianterreno e della registrazione degli ospiti.
Ai Rachou piaceva la compagnia di artisti e scrittori, e li incoraggiavano a fermarsi all'albergo. Madame Rachou a volte accettava come pagamento le opere degli artisti, non tenendone nessuna per sé poiché non pensava nemmeno per un attimo che sarebbero mai valse qualcosa. La simpatia per gli artisti risaliva alla sua infanzia, quando, a dodici anni, aveva cominciato a lavorare in una locanda di campagna a Giverny, poco distante dallo studio di Monet. Dopo aver passato la mattina a dipingere una serie di sacchi di grano o di pagliai, Monet arrivava alla locanda per pranzare con il suo vecchio amico Camille Pissarro. Una volta Madame Rachou chiese a Brion Gysin: «E che ne è stato del figlio, il giovane M'sieu Pissarro?» Brion non sapeva, ma le disse che proprio in quel periodo a Parigi c'era una grande retrospettiva dei dipinti di Pissarro e si offrì di portarcela, ma lei aveva troppo da fare con l'albergo per simili distrazioni.
La signora si occupava del bar e il suo nome, J.B. Rachou, era dipinto sulla porta a vetri nella caratteristica grafia a caratteri inclinati dei decoratori d'insegne vecchio stile. I Rachou non diedero mai un nome all'albergo, preferendo semplicemente distinguere gli ingressi: sulla porta a sinistra c'era l'insegna hotel, e al di sopra della porta a vetri del caffè si leggeva invece café vins liqueurs e tanto bastava. Per ventiquattro anni, durante l'occupazione e nei difficili mesi dopo la Liberazione, quando cibo e carburante erano ancora più scarsi di quanto non fossero sotto i tedeschi, la coppia tenne aperto l'albergo pur riuscendo a sopravvivere a stento.
Poi nel settembre del 1957 il signor Rachou morì in un incidente automobilistico nella cittadina di Saint-Germain, appena fuori Parigi. I Rachou avevano da poco comprato una Citroën ds di seconda mano e il signor Rachou era andato in campagna a prendere alcuni amici per portarli poi all'albergo per il pranzo domenicale. A Saint-Germain una macchina aveva investito la sua a un incrocio, uccidendo lui e ferendo gravemente i suoi quattro amici. Madame Rachou era distrutta, ma non ebbe altra scelta che tirare avanti. Un albergo, si sa, non può essere trascurato più di qualche giorno.
Essendo così minuta, per riuscire a servire i clienti dietro il tradizionale bancone di zinco del bistrò, la signora doveva stare in piedi su una cassetta di vino capovolta. C'erano tendine di pizzo ai vetri dell'ampia finestra e diverse piante di aspidistra dallo stelo lungo e delicato, con le punte delle foglie lanceolate sempre secche. Nel bistrò, su un pavimento di piastrelle malandate, poggiavano tre tavolini con sottili gambe di ghisa e piani di marmo sui quali lei serviva caffè e brioche per colazione. La colazione non era inclusa nel prezzo della camera, non era quel tipo di albergo; i 40 centesimi del caffè dovevano essere pagati alla consumazione.
Madame ammanniva pasti poco costosi ma abbondanti a base di stufato d'agnello o di coniglio in umido, ma dopo la morte del marito non aprì più la grande sala da pranzo sul retro tranne che per gli occasionali pranzi riservati ad agenti di polizia o altri fonctionnaires. L'albergo era di tredicesima classe, la categoria più bassa in assoluto, ed era quindi tenuto a garantire solo il rispetto dei regolamenti sanitari e di sicurezza, nient'altro. Dopo la guerra, come parte della stessa operazione di pulizia di Parigi che aveva chiuso i bordelli, molti alberghetti del vicinato, appartenenti alla stessa categoria, erano stati chiusi dalla polizia perché contravvenivano a regolamenti a lungo ignorati. Questo era uno dei motivi per cui c'erano tanti clochard nelle strade. Tuttavia Madame Rachou era in buoni rapporti con la polizia fin da prima dell'occupazione e intendeva conservarli tali.
Aveva lo spirito della classica concierge. Dall'alto del suo posto di osservazione sulla grossa cassetta di vino riusciva a controllare il proprio dominio: alla sua destra, da una porta a vetri si vedeva lo stretto ingresso dell'albergo, mentre la sala da pranzo sul retro, separata dal bar da una tenda, aveva una finestra che dava sulle scale e permetteva di vedere le gambe di chi entrava o usciva - ideale per afferrare alle caviglie un ospite truffaldino che tentasse di svignarsela senza pagare il conto. Vicino alla porta, di fronte al bar, la signora aveva il pannello di controllo dell'impianto elettrico; il numero di ogni camera era indicato da una targhetta smaltata, su ognuna delle quali s'accendeva una minuscola lampadina quando la luce di quella stanza era accesa. Ogni camera aveva a disposizione 40 watt, appena sufficienti per una fioca lampadina da 25 watt e una radio o un giradischi. L'impianto elettrico era arcaico: estremamente instabile, con sistematica frequenza faceva piombare tutti nel buio se un ospite sovraccaricava il circuito. Quando la lucetta sul pannello di controllo si faceva troppo brillante, la signora sapeva che qualcuno stava usando un fornelletto abusivo e si precipitava di sopra per scoprire il colpevole. La disponibilità di ogni camera poteva salire a 60 watt, ma ovviamente si pagava un piccolo sovrapprezzo. Piuttosto che sobbarcarsi questa spesa extra, la maggior parte dei residenti cucinava su fornelli a due fuochi, a gas o a kerosene, che ognuno si procurava da sé. Le cucine a gas erano provviste di contatori individuali, e la signora sembrava scegliere sempre il momento meno adatto per arrivare in camera col letturista.
Le quarantadue stanze non avevano tappeti o telefoni. Alcune erano particolarmente buie, perché le finestre davano sulla tromba delle scale e ricevevano soltanto luce indiretta dai finestroni sudici dei pianerottoli. I corridoi avevano strane pendenze agli angoli, e i pavimenti cigolavano e scricchiolavano. Le porte antiquate si aprivano con la maniglia al centro invece che su un lato. Su ogni pianerottolo c'era una chiotte alla turca: una latrina tradizionale con un buco nel pavimento e due rialzi laterali a forma di impronta di piede sui quali acquattarsi. Appesi a un chiodo c'erano pezzi di fogli di giornale al posto della carta igienica, ma molti dei residenti la compravano per conto proprio e se la portavano dietro. Al pianterreno c'era una vasca da bagno, ma bisognava prenotarla prima in modo che si potesse far scaldare l'acqua. Naturalmente anche per questo servizio si pagava un piccolo sovrapprezzo. Brion Gysin sosteneva che mettendo la testa sott'acqua nella vasca, si sentiva gorgogliare la Bièvre, il fiume sotterraneo che sfocia nella Senna alcuni isolati a est di rue Gît-le-Coeur, di fronte a Notre-Dame - un'affermazione che poi approfondì nel suo romanzo The Last Museum. Come tutto il resto nell'edificio, l'impianto idraulico era antidiluviano e quindi soggetto a intasamenti, rumori metallici, fortissime vibrazioni e perdite. Il riscaldamento c'era tutta la settimana, ma l'acqua calda soltanto giovedì, venerdì e sabato.
Tende e copriletti venivano lavati e cambiati in primavera, la biancheria del letto un pochino più di frequente - in teoria, ai primi di ogni mese. Dopo la morte del signor Rachou la signora assunse un custode, il signor Duprés, che di tanto in tanto vagava per l'albergo con l'apparente intenzione di far le pulizie nelle camere e rifare i letti. Spesso era accompagnato da una fila di bambinetti e, proprio come la signora, sceglieva inevitabilmente il momento meno opportuno per entrare in una stanza. Qualche parete era molto sottile, poco più di una tramezza di cartone, e i rumori viaggiavano per strane vie, talvolta provenivano molto forti dagli scarichi dei lavandini.
La porta d'ingresso non era mai chiusa a chiave o sorvegliata, ma Madame Rachou aveva un suo modo misterioso, quasi da chiaroveggente, di sapere tutto quel che accadeva sia all'interno dell'albergo sia fuori sulla strada. La signora riusciva a captare i potenziali problemi - un passo estraneo, uno scricchiolio insolito - e si materializzava sulla soglia per proteggere i residenti da creditori, imbroglioni o sporadiche visite della polizia. A qualsiasi ora della notte, compariva impassibile nella sua camicia da notte bianca: «Monsieur? Que voulez-vous?» Neppure la polizia riusciva a tenerle testa. Nel 1962, durante la crisi algerina, un giovane flic foruncoloso era di servizio sull'altro lato della strada, di guardia all'abitazione di un ex capo della polizia che era sulla lista nera dell'oas e s'aspettava da un momento all'altro una bomba o una coltellata assassina. Il poliziotto notò una bella ragazza americana che entrava in albergo e la seguì fino alla porta della sua camera, dove apparve Madame Rachou e lo scacciò dall'albergo con una mitragliata d'insulti, agitando con veemenza le corte braccia mentre i capelli dai riflessi azzurri brillavano nel corridoio poco illuminato.
Tuttavia la signora non poteva tenere sotto controllo il servizio immigrazione. Nella descrizione di William Burroughs: «La 'polizia degli stranieri', gli addetti all'immigrazione di tanto in tanto eseguivano controlli dei passaporti, di solito alle otto di mattina, e spesso si portavano via qualche ospite che non aveva i documenti in regola. Chi era stato trattenuto veniva rilasciato di lì a poche ore, dopo aver pagato non una multa bensì una tassa richiesta quando si faceva domanda per la carte de séjour, pochi avevano però il tempo e la pazienza di ottemperare alle complesse norme burocratiche necessarie per ottenere l'ambito documento». La maggior parte, incluso Burroughs, ricorreva all'espediente di un viaggetto a Bruxelles o ad Amsterdam ogni tre mesi, in modo da riottenere la concessione di soggiorno trimestrale a ogni rientro in Francia.

La cultura della bohème è molto francese. E infatti Henri Murger, autore di Scene della vita di bohème, affermava (nel 1851) che i veri bohémien possono esistere solo a Parigi. La Gran Bretagna era meno tollerante verso i comportamenti poco ortodossi. Londra produsse eccentrici ed esteti, ma non aveva una tradizione di povertà fra gli artisti. Byron e Shelley avevano scoperto che la vita nel diciannovesimo secolo era più facile sul continente. Oscar Wilde, una volta rilasciato dal carcere di Reading, si trasferì a Parigi per vivere più liberamente la propria vita.
Rue Gît-le-Coeur aveva sempre avuto i suoi residenti bohémien. Nel 1930 Dorothy Wilde, la scatenata nipote di Oscar, abitò al numero 1, e Lord Gerard Vernon Wallop Lymington, nono conte di Portsmouth, occupava delle stanze proprio sotto i tetti dello stesso edificio, nelle quali, verso la fine degli anni Venti, era solito fumare oppio insieme a Caresse e Harry Crosby. Negli anni Trenta Brion Gysin abitò in un bellissimo appartamento sull'angolo del quai, mai immaginando che sarebbe tornato nella stessa strada due decenni dopo.
Rue Gît-le-Coeur fu anche la scena di un famoso arresto del poeta statunitense e.e.cummings. Alle 3 di notte di un giorno di luglio del 1923, John Dos Passos, Gilbert Seldes e cummings erano diretti «alla taverna del Calvados della rue Gît-le- Coeur». Quando cummings si fermò a orinare contro un muro sbucò «un'intera schiera di gendarmi». Fu arrestato e portato alla stazione di polizia del quai des Grands Augustins, dove venne registrato come «un Américain qui pisse» e gli fu ingiunto di ritornare l'indomani mattina per la formulazione dell'accusa. Seldes telefonò al suo amico scrittore Paul Morand, Ministre des Affaires Etrangères, che fece ritirare ogni imputazione, cummings non fu informato di questi sviluppi e il giorno dopo si presentò alla stazione di polizia. Fu lasciato andare, ma all'uscita trovò un gruppo di suoi amici che portavano dei cartelli sui quali era scritto: Sospendete l'esecuzione del Pisseur Américain. cummings rimase profondamente commosso dalla loro solidarietà, fino a quando non scoprì che la manifestazione di protesta era uno scherzo.
L'albergo dei Rachou mantenne la tradizione bohémien del quartier. In uno degli abbaini abitavano un fotografo che non rivolgeva la parola a nessuno da due anni, e un artista che aveva riempito la propria camera di paglia. Fra le prostitute, i musicisti jazz e le modelle dei pittori c'erano tipi strani come un gigante della Guyana francese che passava a stento per gli strettissimi corridoi, e un'imperiosa signora indocinese sempre vestita di seta che alla porta aveva una tenda di bambù. Il primo dei cosiddetti beatnik arrivò nel 1956: era un pittore svizzero che tutti chiamavano Gesù Cristo. Aveva capelli neri e folti lunghi fin quasi alla vita, e barba e baffi incolti. Indossava ampie vesti di cotone bianco sporco e girava in sandali senza calze anche nel freddo gelido dell'inverno parigino. Poiché non poteva permettersi di comprare tele, dipingeva sui muri e, in seguito, sul soffitto e sul pavimento della sua stanza al secondo piano. Il signor Rachou non se ne preoccupava, perché credeva che la vernice tenesse lontano i parassiti.
A differenza delle altre centinaia di alberghetti scalcinati di Parigi che offrivano appena il minimo necessario, il Beat Hotel rappresentava un'eccezione, in quanto Madame Rachou incoraggiava gli artisti a fermarsi da lei e concedeva ai suoi ospiti la libertà di vivere come meglio credevano. Potevano portarsi in camera un ragazzo, una ragazza o addirittura un gruppo, e se si fermavano a dormire bastava che firmassero la fiche del registro degli ospiti. Su questo la polizia non transigeva. Sotto ogni altro aspetto, l'albergo era squallido e sporco come quelli vicini. C'erano ratti e topi, le camere e le scale erano lerce, i cessi puzzavano e i corridoi erano saturi di lezzo di cucina stantio. Jean-Jacques Lebel, un artista che abitava nell'Hotel Colbert, in una via vicina, veniva di frequente a trovare i beat americani. «Molto spesso da loro c'era un tanfo tremendo» ricordava, «perché erano in molti a cucinare in camera, e c'era Dixie Nummo, un giamaicano, che usava molto aglio e olio e appestava l'intero stabile. C'erano anche alcuni anziani francesi che abitavano lì da secoli e cucinavano con molto grasso, quindi il posto puzzava... I ratti stavano al pianterreno, non ai piani alti, e quando la Senna cresceva anche loro uscivano dalle tane e salivano. Quando ci sono tossici in giro ci sono ratti. Era una cosa spaventosa, un'atmosfera un po' tipo quella del Pasto nudo
Fra gli ospiti dei Rachou il primo a raggiungere la celebrità fu lo scrittore afroamericano Chester Himes. Il suo primo racconto lo What Red Hell fu pubblicato nel 1934 da «Esquire», mentre Himes stava scontando una condanna a otto anni per rapina a mano armata nel Penitenziario di stato dell'Ohio. Il suo primo romanzo If He Hollers Let Him Go apparve nel 1945, fra i consensi della critica, ma il suo seguito, Lonely Crusade, troppo brutalmente sincero sulle condizioni di vita dei neri negli Stati Uniti, non fu accolto altrettanto bene. Himes giunse in Europa nel 1953 e rimase all'estero, per lo più in Spagna, fino alla morte avvenuta nel 1984. Il suo traduttore francese, Marcel Duhamel, gli suggerì di provare a scrivere qualche libro giallo, genere allora molto popolare in Francia. Himes diede vita a due investigatori afroamericani di Harlem, Digger Jones e Coffin Ed Johnson, le cui imprese in una serie di otto romanzi resero celebre in Francia il loro autore, che invece in patria restò relativamente sconosciuto. Fu solo nel 1970, quando il regista Ossie Davis trasse da un volume del 1965, Cotton Comes to Harlem, un film di successo, che Himes fu portato all'attenzione di un più vasto pubblico americano.
Sulle prime Himes, quando cercò di trovare una camera d'albergo a Parigi, sperimentò sulla propria pelle un aperto razzismo. Nell'autobiografia descrive la sua ricerca d'alloggio nel 1954: «L'Hotel Welcome, che si apriva su place de l'Odéon ed era tra i preferiti dei giovani americani bianchi, diede l'esempio. Mi dissero che non potevano accettare noirs: ai loro clienti non sarebbe piaciuto. I primi nove alberghi ai quali chiedemmo ci rifiutarono perché io ero nero. La maggior parte dei proprietari ci disse che il motivo era quello». Molti americani della Rive gauche avevano portato con sé i propri pregiudizi e pretendevano che gli alberghi rispettassero la stessa segregazione razziale a cui erano abituati negli Stati Uniti. Alla fine Himes mandò la sua giovane compagna bianca in un albergo che gli aveva detto di essere complet. Dopo che la ragazza ebbe ottenuto una camera si presentò anche lui. Himes viaggiò molto in Francia e in Europa e, tornato a Parigi nella primavera del 1956, ebbe la fortuna di imbattersi in Madame Rachou. Si installò nell'albergo con la sua ragazza, una giovane tedesca di nome Marlene Behrens. Era uno dei pochi alberghi in cui un nero potesse stare senza dar scandalo insieme a una bianca, specie se questa aveva la metà dei suoi anni.
Occupavano una camera del secondo piano sulla facciata, sopra quella dei proprietari, arredata con una toletta dal piano di marmo che fungeva anche da tavolo da cucina e da pranzo, completa di fornello a gas. Era una stanza piccola, riempita quasi interamente dal letto, ma un enorme armadio malconcio con uno specchio a figura intera creava l'illusione dello spazio. Fu qui che Himes lavorò a parti di Mamie Mason e qui che scrisse The Five Cornered Square, che finì il 18 gennaio 1957. Il 3 maggio dello stesso anno completò A Jealous Man Can't Win. Lavorava con grande rapidità. Dopo la morte del signor Rachou, Marlene passò molto tempo a consolare Madame Rachou, sedendo con lei al bar, ascoltando con simpatia i suoi racconti dei tempi andati. Aveva vissuto in Germania da bambina, negli anni della guerra, e i racconti della signora sull'occupazione tedesca di Parigi le insegnarono molto. Himes e Marlene partirono per Palma di Maiorca nell'ottobre del 1957, e di lì a qualche settimana arrivarono i primi scrittori della Beat Generation.
I nuovi arrivati non avrebbero mai saputo quel che era stato l'hotel con la solida presenza del signor Rachou, o che Madame Rachou aveva il cuore spezzato. Lei continuava con la vita di sempre, ma ora faceva maggiore assegnamento sui clienti per la compagnia, trattandoli come se fossero un sostituto della famiglia. La sera si sedeva a chiacchierare all'infinito con i residenti, servendo tazzine di acquoso espresso, con Mirtaud, il gatto dell'albergo, acciambellato in grembo, fino a quando alle 22.30 il bar chiudeva e lei abbassava la serranda di ferro.
Con l'arrivo dei beat, quell'ottobre, l'hotel entrò in una nuova fase, e per i circa sei anni che seguirono fu al centro di una prolungata esplosione di attività creativa identica a quella che si era da poco verificata a San Francisco. Laggiù la presenza di Allen Ginsberg e di Jack Kerouac aveva catalizzato la scena poetica, dando vita a quel che doveva poi essere conosciuto come San Francisco Poetry Renaissance - un libero gruppo di poeti che includeva Gary Snyder, Michael McClure, Lawrence Ferlinghetti, Philip Whalen, Richard Brautigan e altri. (Aveva forse preso nome dall'Harlem Renaissance, visto che a San Francisco non c'era stato nessun movimento letterario precedente.) Una serie di reading di poesie, a partire da quello ormai leggendario che ebbe luogo alla Six Gallery il 7 ottobre 1955, quando Ginsberg lesse Urlo per la prima volta, portò i poeti di San Francisco all'attenzione di Richard Eberhardt, il quale scrisse un importante articolo sulla scena locale per il «New York Times». Questo, unito al fortuito sequestro con l'accusa di oscenità delle copie di Urlo di Ginsberg, portò l'attenzione dell'intero paese a focalizzarsi sui poeti della città della Baia. Furono organizzati altri reading e i caffè si animarono di poesia dal vivo. I poeti collaboravano con musicisti jazz nei club che stavano aperti tutta notte. All'improvviso si era creato un dinamico, vibrante ambiente letterario, che aveva al suo centro la libreria City Lights di Ferlinghetti, editore della notissima e prestigiosa collana dei Pockel Poets che includeva Urlo di Ginsberg.
Tuttavia Ginsberg non rimase a crogiolarsi nella fama. Tornò a New York e di là andò a Tangeri per aiutare William Burroughs a sistemare il manoscritto di quel che poi sarebbe divenuto Pasto nudo. Proprio mentre Urlo si guadagnava la notorietà dei media, Ginsberg, insieme al suo compagno Peter Orlovsky e al poeta Gregory Corso, partiva alla volta di Parigi per stabilire un nuovo quartier generale nel Beat Hotel. L’affitto bassissimo e l'atmosfera permissiva incoraggiarono un clima di libertà e creatività scevro da preoccupazioni finanziarie. Non essendo francofoni, non erano affatto coinvolti nella cultura del paese e nelle questioni nazionali, né erano limitati dalle regole di vita dei francesi, semplicemente perché non le conoscevano. Per dirla con le parole del loro amico e traduttore francese Jean-Jacques Lebel: «Erano su un'isola, distaccati da tutto in questo piccolo, magico paradiso pieno di ratti e cattivi odori. Ma era idilliaco perché diede loro via libera a essere loro stessi senza dover rendere conto all'America». Il Beat Hotel offriva la libera scelta tra l'ozio o l'intensa e appassionata attività, tra l'ingannare il tempo passando la giornata nei caffè o il discutere tutta la notte. Era un posto dove si potevano sviluppare idee in una comunità staccata dalla morale comune proprio come i residenti del famoso Impasse du Doyenné, la prima colonia della bohème.
Un tempo, nelle vicinanze dell'attuale piramide del Louvre, all'angolo del Carrousel, lungo una strada senza uscita fra le rovine del priorato di Doyenné, di cui restavano ancora in piedi alcuni archi e colonne, sorgeva un insieme di edifici fatiscenti che nel 1830 ospitava una piccola comunità autonoma di bohémien. Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Arsène Houssaye, Edouard Ourliac e molti altri scrittori e pittori abitavano e lavoravano, circondati da arredi, tappezzerie e tendaggi gotici, razziati durante la Rivoluzione che si potevano ancora trovare e acquistare per poco dai rigattieri. Nerval chiamava questa comunità «la Bohème galante» e scrisse un libro con questo titolo che descriveva le loro vite. Fu qui che Ourliac lavorò a Suzanne, il libro che doveva renderlo celebre. E Gautier scrisse Mademoiselle de Maupin, Houssaye scrisse La pécheresse, e Rogier illustrò I racconti di Hoffmann.
Nelle opere di Gautier e dei suoi amici c'era una forte tendenza all'erotismo che li distingueva dagli altri scrittori e artisti del tempo, e all'Impasse du Doyenné l'orgia era un modo piuttosto comune di passare il tempo. Un'orgia fornisce il tema per Les Jeunes-France di Gautier, nel quale un gruppo di giovanotti si riunisce per organizzare una festa colossale. Ci fu una famosa serata nella quale Gautier e i suoi amici si prostrarono tutti insieme dinanzi a una donna e nel buio più totale bevvero punch in teschi umani. In occasione di un ballo mascherato nel 1835, Camille Corot dipinse due grandi paesaggi provenzali sul rivestimento a pannelli dell'appartamento di Nerval. La Bohème galante attirò visitatori famosi come Eugène Delacroix, Alexandre Dumas e Petrus Borel, ansiosi di non essere lasciati fuori dalle ultime tendenze. Era questa la tradizione che rue Gît-le-Coeur continuava e, come l'Impasse du Doyenné, per alcuni brevi anni il Beat Hotel fu il centro dell'avanguardia letteraria mondiale.

Benché l'albergo fosse a buon mercato e il dollaro forte, gli studenti e gli scrittori che vi risiedevano dovevano pur prendere il denaro da qualche parte. Una delle maggiori fonti di guadagno per gli americani indigenti della Rive gauche era scrivere pornografia per l'Olympia Press di Maurice Girodias, una casa editrice in lingua inglese che produceva libri che sarebbe stato illegale pubblicare negli Stati Uniti o in Gran Bretagna.
Circa un terzo della collana Traveller's Companion nel catalogo della Olympia consisteva di opere letterarie non in circolazione perché bandite in Inghilterra e in America: Teleny di Oscar Wilde; Zenzero di J.P Donleavy; Lolita di Vladimir Nabokov; Il diario di un ladro di Jean Genet; Il libro nero di Lawrence Durrell; Sexus, Plexus e Nexus di Henry Miller; La filosofia del boudoir, Le 120 giornate di Sodoma, Justine del Marchese de Sade; Storia di O di Dominique Aury, conosciuta anche come Pauline Réage; il Kama Sutra e Fanny Hill di John Cleland. C'erano anche alcuni testi che non parlavano affatto di sesso, come Zazie nel metrò di Raymond Queneau e Molloy e Watt di Samuel Beckett. Ma per i turisti inglesi e americani di passaggio a Parigi la caratteristica copertina verde dei tascabili della collana Traveller's Companion era sinonimo di «pornografia» e le opere letterarie erano arraffate a casaccio e nascoste in fondo alla valigia insieme ad altri titoli dell'Olympia quali Sin for Breakfast, Until She Screams e With Open Mouth.
Girodias vi faceva riferimento come «DB», Dirty Books (cioè «libri sporchi»), e spesso annunciava titoli che ancora non erano in catalogo. Se per quel titolo arrivavano prenotazioni sufficienti, incaricava uno dei suoi scrittori di prepararglielo. Durante tutti gli anni Cinquanta e agli inizi dei Sessanta, l'Olympia pubblicò oltre un centinaio di DB, tutti in pratica scritti sotto pseudonimo da americani, molti dei quali collegati in un modo o nell'altro al Beat Hotel.
Quando i turisti ne ebbero abbastanza di letteratura e chiesero più DB, il sagace Girodias offrì loro una scelta più ampia chiamando le collane Atlantic Library, Othello Books, Ophelia Press e Ophir Books, ognuna delle quali conteneva titoli simpaticamente immuni da meriti letterari. Tra queste, l'Ophelia Press era la più allettante, con titoli quali The Ordeal of the Rod, Iniquity, The English Governess, Under the Birch, Lust, Without Shame, The Whipping Club e Whips Incorporated, che non lasciavano alcun dubbio al lettore sul contenuto. Decine e decine di scrittori erano occupati a sfornare DB per tutti i gusti.
Sulla Rive gauche il maggior punto vendita di questi titoli era la Librairie Anglaise in rue de Seine 42, che trattava libri in inglese. La proprietaria era Gaït Frogé, una bellissima francese in miniatura che adorava scritti e scrittori americani. Era nata in Bretagna e parlava inglese con raffinato accento britannico. Il minuscolo negozio quasi triangolare era situato in un edificio sghembo del XVI secolo all'incrocio di rue de Seine con rue de l'Echaudé. L'ambiente era dominato da un enorme tavolo che occupava quasi tutto lo spazio, tanto che girare per il negozio risultava piuttosto arduo. Sul tavolo c'erano alte pile di polverosi volumi di poesia e di rivistine letterarie, tutti di pubblicazione propria, una vera miniera per chi andasse alla ricerca di edizioni rare.
I libri dell'Olympia Press erano la specialità di Gaït e quelli che si vendevano meglio nel suo negozio, ma lei ne teneva pochi sugli scaffali, giusto per far sapere ai clienti che li vendeva. La sera non chiudeva mai la porta a chiave, nonostante la piccola collana Traveller's Companion dalla copertina verde e le edizioni più pornografiche dell'Ophelia Press avessero un prezzo piuttosto alto e fossero ovviamente prese di mira dai taccheggiatori o dai ladri notturni. Li teneva quasi tutti in uno stipo vicino alla cassa, disponibili su richiesta. I titoli più letterari dell'Olympia, come quelli di William Burroughs stampati da Girodias e scritti negli anni trascorsi al Beat Hotel, erano spesso presentati ai lettori in negozio con una festa nella piccola cave, la cantina medievale della libreria, con la volta a botte e le pareti piuttosto umide, illuminata da candele infilate in bottiglie da vino. Girodias pagava il conto del vino e dei biglietti d'invito. Quando nel giugno del 1960 l'Olympia pubblicò The Young and Evil di Charles Henri Ford e Parker Tyler (che in origine era stato pubblicato, sempre a Parigi, da Girodias padre nel 1933), Gaït mise eccezionalmente in mostra le foto degli autori e riempì la vetrina di copie del libro.
La libreria era angusta e sovraccarica, zeppa di libri ammucchiati gli uni sugli altri, con locandine di mostre e reading che coprivano la porta e la vetrina e bicchieri da vino vuoti in equilibrio instabile su pile di gialli americani tascabili a poco prezzo, copie della rivista «Encounter» di due anni prima allineate sullo stesso scaffale accanto al volumetto di un poeta locale, fresco di stampa. Gaït abitava sopra la libreria e spesso i clienti entrando trovavano che alla cassa non c'era nessuno e nel negozio silenzioso si udiva solo il vigoroso cigolio delle molle del letto al piano superiore. Quando nel 1958 Burroughs si trasferì a Parigi, Gaït diventò uno dei suoi finanziatori. Nel 1960, quando Two Cities, l'editore di Minutes to Go, non fu in grado di saldare il conto di 300 dollari per le spese di stampa, subentrò subentrò lei nell'impresa, pagò e lanciò il libro dalla sua libreria. E ancora, fu lei a far uscire un album dal titolo Call Me Burroughs, prodotto da Ian Somerville, nel quale Bill leggeva brani da Pasto nudo e altri scritti più recenti, e che era stato registrato nella sua cave.
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta gli americani e i britannici che vivevano a Parigi erano parecchi, ben serviti da librerie che vendevano testi in inglese. Vi era Stock, a place du Théâtre-Français; Brentano su avenue de l'Opéra; i cinque negozi di Flammarion; Galignani, su rue de Rivoli e, dieci numeri più oltre sulla stessa strada, il rigido conservatore W.H. Smith, dove si serviva tè inglese. Ma in queste librerie si vendevano soprattutto libri di successo o testi tecnici alla vasta comunità di lettori del mondo diplomatico o militare; i gruppi più giovani di studenti o di letterati erano accuditi dalle due librerie di lingua inglese sulla Rive gauche, una delle quali era la Librairie Anglaise di Gaït, nota anche come English Bookshop. L'altra era la Mistral, al 37 di rue de la Boucherie, in un altro vecchio edificio sulla riva della Senna opposta a Notre-Dame, vicino alle rovine di Saint-Julien-le-Pauvre. Il proprietario, e quindi arcirivale di Gaït, si chiamava George Whitman, era americano ma risiedeva in Francia dal 1946, quando era arrivato per occuparsi degli orfani di guerra. Si era poi avvicinato al mondo librario e nel 1951 aveva acquistato l'edificio della Mistral con i quattrini di una eredità, trasformando quel che era stata una drogheria araba in una combinazione di libreria, ostello della gioventù e circolo sociale. Al piano superiore c'era una sala di lettura con letti, dove scrittori e poeti di passaggio potevano fermarsi gratuitamente fino a una settimana: per questo, come la Librairie Anglaise, la Mistral era usata come punto d'incontro e recapito postale da molti degli espatriati americani. C'era un'aspra competizione fra i due negozi. La Frogé affermava che Whitman lavorasse per la CIA - «Come si spiegherebbero altrimenti le sue lunghe assenze dalla libreria?» - e sosteneva che lui raccontava in giro che lei si drogava.
L'English Bookshop era la più «letteraria» delle due e l'unica che vendesse i libri dell'Olympia Press. Nonostante le suppliche appassionate di Girodias e le argomentazioni degli autori dell'Olympia, Whitman si rifiutava di mettere in vendita i titoli dell'Olympia Press, forse per timore di possibili problemi con la polizia. Cosa poco probabile, se perfino Brentano aveva in stock libri dell'Olympia; c'era uno scaffale su cui con molta discrezione erano allineati i volumetti dei Traveller's Companion, e gli americani sapevano sempre dove trovarli. C'era chi entrava e si dirigeva dritto lì, ignorando tutti gli altri libri.
La Mistral era più grande dell'English Bookshop e aveva più spazio per i reading di poesia. I residenti del Beat Hotel frequentavano entrambe le librerie, visto che si trovavano più o meno alla stessa distanza dall'albergo. La Mistral era nella stessa direzione dell'Olympia Press e ci si poteva passare l'intera giornata a leggere libri senza che George protestasse, mentre la Librairie Anglaise era a pochi passi dalla Palette, all'angolo fra rue de Seine e rue Jacques-Callot, che a quei tempi era ritrovo abituale di spacciatori. Ogni percorso aveva i suoi naturali vantaggi.


Fra gli occupanti del Beat Hotel, molti non si spingevano più in là di qualche isolato da rue Gît-le-Coeur, un mese via l'altro: in pratica, tutto quel di cui avevano bisogno era lì a due passi. C'era una quantità di ristorantini economici nel raggio di pochi isolati e alcuni dei residenti avevano accordi stabili con i proprietari, come chitarristi o intrattenitori d'altro genere. La zona era piena di localini jazz e caffè aperti fino a tardi. La scuola d'arte era solo a due isolati, per le ragazze che stavano all'albergo e facevano le modelle, mentre la maggior parte degli americani si guadagnava da vivere facendo gli strilloni per l'edizione parigina del «New York Herald Tribune» e di rado si spingeva oltre boulevard Saint-Germain in cerca di acquirenti. In genere la droga veniva consegnata al destinatario a domicilio nell'albergo, ma si poteva anche reperire con facilità nei caffè algerini e marocchini vicino a rue Saint-Séverin e alla Palette. Il meraviglioso mercato di bancarelle di rue de Buci distava solo qualche minuto, e in rue de la Huchette era possibile fare la spesa fino a tardissimo. C'era un posto chiamato Ali Baba dove chi alloggiava all'albergo poteva comprare da mangiare fino alle due di notte, se voleva cenare tardi; la frutta esposta sul marciapiedi era coperta da una rete che la proteggeva dai ladri di passaggio. A molti dei residenti dell’hotel quella zona sembrava il paradiso.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
domenica, 1 ottobre 2017


































mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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