lunedì 24 dicembre 2018

Il ponte sulla Drina

Ivo Andrić
Prima edizione in lingua originale: 1945
Arnoldo Mondadori Editore 1960
Traduzione di Bruno Meriggi
pp. 3-4

Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s’apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi cañon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde si allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Višegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un’improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e ravvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d’armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio. Questo ponte somiglia a una base dalla quale si apre a ventaglio tutta una pianura ondulata, con la cittadina di Višegrad, i suoi dintorni, e le borgate distese sulla fascia delle colline, una pianura coperta di campi, di pascoli e di piantagioni di prugni, intersecata da siepi e quasi spruzzata dai boschi cedui e di rade macchie d’abeti. In tal modo, guardando dal fondo del panorama, sembra che dalle ampie arcate del candido ponte scorra e si spanda non soltanto la verde Drina, ma anche tutta questa estensione, solatia e coltivata, con tutto quello che vi si trova e il cielo meridionale sopra. Sulla sponda destra del fiume, iniziando proprio all’altezza del ponte, si trova la parte più grossa della città col mercato turco, in parte sul piano, in parte sui pendii delle colline. All’altra estremità del ponte, lungo la riva sinistra, si estende Maluhino Polje, un sobborgo sparpagliato attorno alla strada che conduce a Sarajevo. E così il ponte, congiungendo le due estremità della strada per Sarajevo, unisce la città al suo sobborgo.
Quando si dice “unisce”, è esattamente come dire che il sole sorge al mattino affinché noi uomini possiamo vedere intorno a noi e svolgere gli affari che ci stanno a cuore e tramonta sul far della sera per consentirci di dormire e di riposare dalle fatiche del giorno. Questo grande ponte di pietra, preziosa costruzione di singolare bellezza, quale non posseggono neppure cittadine assai più ricche e frequentate (“Come questo in tutto l’impero ce ne sono soltanto altri due”, si diceva ai tempi antichi), è infatti l’unico mezzo di comunicazione stabile e sicuro in tutto il medio ed alto corso della Drina e costituisce un anello indispensabile sulla strada che congiunge la Bosnia con la Serbia e, oltre la Serbia, più in là, con le rimanenti contrade dell’impero turco, fino a Istanbul. E la cittadina col suo sobborgo altro non è se non uno di quei centri abitati che debbono incessantemente svilupparsi sugli importanti nodi di comunicazione e su entrambi i lati dei grandi ponti.
E così anche qui, con l’andar del tempo, le case si sono raccolte a sciame e si sono moltiplicati gli edifici alle due estremità del ponte. La cittadina ha tratto vita da esso e da esso è cresciuta come dalla sua indistruttibile radice.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Il ponte sulla Drina
Višegrad, 4 agosto 1980




lunedì 10 dicembre 2018

Musée Nissim de Camondo, Paris


Cacciati dalla Spagna per volere degli Inquisitori, alla fine del XV secolo una famiglia di ebrei sefarditi attivi nel mondo della finanza trova riparo all’ombra dei minareti dell’Impero ottomano. Vi rimangono per tre secoli, quando l’ala protettrice offerta dallo statuto di protetti dell’impero Austro-Ungarico consiglia loro di traslocare a Trieste, uno dei centri dell’interscambio commerciale tra il mondo cattolico e quello musulmano. Per non disperdere i contatti in essere, nel 1802 Isaac Camondo fonda a Istanbul una banca che porta il suo nome, poi ereditata nel 1832 da suo fratello Abraham-Salomon, colui che viene ritenuto il patriarca dell’immensa fortuna dei Camondo - e le solide radici da lui piantate a Vienna, Londra e Parigi gli regalano il nomignolo di “Rothschild dell’Est”. La sua visione di sviluppo internazionale - tenere i piedi in più scarpe è una lezione che gli ebrei hanno ben imparata a loro spese - lo induce ad associare alla banca di famiglia i suoi due nipoti Abraham-Béhor e Nissim - dal 1866 rimasti orfani del padre Salomon-Raphaël -, spingendoli ad aprire una sede della banca Isaac Camondo et Cie a Parigi, cittàdove lui stesso s trasferisce nel 1869.
Già naturalizzato italiano nel 1865, nel 1867 (per aver economicamente sostenuto la causa di riunificazione dell’Italia) Abraham-Salomon riceve da Vittorio Emanuele III il titolo di conte, trasmissibile ad Abraham-Béhor, il primogenito maschio, una limitazione poi corretta nel 1870 con un secondo decreto che concede anche a Nissim lo stesso titolo e la sua trasmissibilità.
L’aver scelto Parigi quale nuovo centro operativo non scioglie comunque i legami col passato. A Istanbul il patriarca è impegnato nello sviluppo urbanistico del quartiere di Galata, operazione affiancata da un’intensa attività filantropica, con la costruzione di scuole, di ospedali e dispensari che portano il suo nome.
Portare la sede operativa a Parigi implica la necessità di disporre di una struttura di prestigio, adatta a mostrare la solidità della ditta. L’anno 1869 coincide col periodo in cui i fratelli Pereire, acquisiti i diritti sui terreni a sud del Parc Monceau, danno l’avvio a una nuova speculazione residenziale che vede quegli spazi destinati alla costruzione di hôtels particulier adatti alle esigenze di prestigio delle emergenti famiglie dell’alta società industriale e finanziaria. Nel giugno del 1870 i Camondo acquistano due lotti di terreno tra loro adiacenti, un lato rivolto al Parc Monceau, l’altro aperto sulla rue Monceau. Il lotto indicato col numero stradale 61 viene affidato all’architetto Denis-Louis Destrors, che riceve da Abraham-Béhor l’incarico di costruirvi un fastoso hôtels, struttura completata nel 1875.
Il lotto adiacente, che porta il numero 63 di rue Monceau, non è vergine: nel 1864 Adolphe Violet, un ricco imprenditore attivo nei lavori pubblici, vi aveva fatto erigere una casa, ingrandita nel 1872. L’anno seguente Nissim, il nuovo proprietario, affida all’architetto René Sergeant l’incarico di creare una nuova casa, aggiungendovi una serra decorata secondo lo stile giapponese, mentre nel 1874 l’architetto Destors ne realizza la nuova facciata.
Presto inseritisi nel mondo dell’alta aristocrazia francese, i fratelli Camondo non disdegnano di organizzare dei fastosi ricevimenti, aprendo le porte dei loro saloni adorni di oggetti d’arte.

Nel 1889, a qualche mese di distanza l’uno dall’altro, muoiono entrambi i fratelli, un evento che segna l’inizio del declino della banca Camondo. L’erede designato - Isaac de Camondo, figlio di Abraham-Béhor - pian piano si allontana dagli affari per dedicarsi alla musica e all’arte, le sue grandi passioni. Amante dell’arte decorativa del XVIII secolo, nel 1881 acquista per l’ingente somma di 100.000 franchi la pendola delle Tre Grazie, opera attribuita a Étienne Falconet e poi, sempre per la stessa somma, arricchisce uno dei saloni di casa col mobile degli Dei, una prestigiosa opera di alta ebanisteria. Ma l’interesse di Isaac non si limita all’arredamento. Col tempo raggruppa una eccezionale raccolta di pitture, disegni e pastelli di pittori impressionisti quali Degas, Manet, Monet e Cézanne, collezione in seguito donata al Louvre.
Nel 1893 Isaac vende l’hôtel al 61 di rue Monceau per trasferirsi in rue Gluck, a due passi dall’Opéra, dedicandosi anima e corpo alla melomania.

L’hôtel al 63 di rue Monceau è abitato da Moïse de Camondo, l’erede di Nissim. A differenza del suo estroverso cugino Isaac, Moïse vive una vita più convenzionale. Il 15 ottobre 1891 sposa Irène dei conti Cahen d’Anvers (La Petit Irène ritratta da Pierre-Auguste Renoir nel 1880), nata in seno ad una potente famiglia di finanzieri ebrei. Lui ha 31 anni, 19 la sposa. La luna di miele dura otto mesi, passati nella villa di Cannes. Nel 1892 nasce Nissim, nel 1894 Béatrice. Nel frattempo, giusto per rinforzare i nuovi vincoli familiari, Moïse e suo suocero acquistano un mastodontico yacht, Le Geraldine.
Nel 1897 tutto cambia: Irène fugge di casa in compagnia del conte Charles Sampieri, responsabile delle scuderie Camondo. Le pratiche per il divorzio - interminabili e rese pubbliche e scandaloso dai giornali - si concludono l’8 gennaio 1902, coi figli lasciati alle cure paterne. Venduto lo yacht, Moïse reinveste in una vasta tenuta nei pressi di Chantilly, ricca di boschi adatti per la caccia, rinominando Villa Béatrice l’esistente dimora.
Due annotazioni:
- Per unirsi a Sampieri, coetaneo di Moïse, Iréne si converte al cattolicesimo: non può saperlo, ma nel 1944 questa conversione sarà la sua salvezza.
- Nel dicembre 1903 i due fuggitivi hanno una figlia, Claude Germaine.

Moïse coltiva la passione per i viaggi e per le automobili, già condensate nel 1901 nella partecipazione alla gara Parigi-Berlino. Rimasto solo, in compagnia dei figli ogni anno ama passare il mese di dicembre a Saint-Moritz, quello di gennaio a Monte-Carlo, i mesi estivi a Biarritz, Dinard o altre località à la page.

È solo alla morte del cugino Isaac (1911) che Moïse eredita la direzione della banca di famiglia, a cui s’aggiungono altri incarichi in consigli d’amministrazione. Non amante dei rischi finanziari, la sua direzione bancaria è caratterizzata dalla mera gestione conservativa.

Il tempo passa, i figli crescono, una prima guerra mondiale arriva.
Patriota convinto, nel 1914 il ventiduenne Nissin s’arruola nell’aviazione. Nel 1915, in qualità d’osservatore, partecipa a numerose missioni volte a fotografare i campi di battaglia di Verdun e della Somme. Nel luglio del 1916 prende il brevetto di pilota. Il 5 settembre 1917 Nissim lascia la base di Villers-les-Nancy per una nuova ricognizione. Con lui sul velivolo, un Dorand, vi è Lucien Desessard, fotografo e artigliere. A tremila metri di quota incrociano un aereo tedesco, il Dorand è abbattuto. Tre settimane dopo la conferma: i due aviatori sono stati sepolti con gli onori militari nel cimitero tedesco di Avricourt.
La notizia della morte dell’amato figlio getta Moïse nella più totale disperazione. Per lui tutto è finito. Nel 1919 vende la banca, nel 1924 redige il testamento, donando il suo palazzo e le collezioni in esso contenute allo Stato francese, ponendo precise condizioni, tra cui: «Desidero che il museo sia tenuto in maniera impeccabile e pulito meticolosamente. Non è compito facile, nemmeno con personale di primo livello, che dovrà essere composto da un numero di addetti sufficiente alla bisogna; il lavoro è tuttavia facilitato da un sistema completo di aspirazione che funziona con poca spesa e meravigliosamente bene. […] Nei giorni di pioggia i visitatori potrebbero accedere dal cancello di ferro battuto che dà sul passaggio carrabile coperto che collega il cortile con boulevard Malesherbes. Tale cancello è preceduto da un ampio marciapiede che potrebbe essere ricoperto di stuoie e lungo il quale si potrebbero disporre dei portaombrelli.»

Moïse de Camondo muore il 14 novembre 1935 e a vegliare sull’esecuzione del testamento paterno si applica la figlia Béatrice, colei che il 21 dicembre 1936 - presente il Presidente della Repubblica e altre cariche dello Stato - inaugura ufficialmente il Musée Nissim de Camondo, dedicato al figlio (e fratello) morto per la Francia.

È di nuovo guerra, con l’occupazione tedesca e il governo di Vichy affidato a Pétain.
In quanto ebrei da più di tre generazioni (mentre ne bastano solo due se entrambi i coniugi sono ebrei) nel dicembre del 1942 Béatrice, Léon Reinach (suo marito dal 1919) e i loro due figli - Fanny (1920) e Bertrand (1923) - sono arrestati e deportati nel famigerato campo di Drancy, periferia est di Parigi.
Il 20 novembre 1943 Léon, Fanny e Bertrand vengono stipati sul Convoglio 62 diretto ad Auschwitz. Sono 1200 le persone a bordo. All’arrivo 914 di loro sono subito uccise, mentre Léon e Bertrand vengono fatti proseguire verso i campi di Birkenau (Léon) e Monowitz (Bertrand).
Il 31 dicembre 1943 Fanny viene uccisa ad Auschwitz.
Il 7 marzo 1944 Béatrice è una delle 1501 persone che lascia Drancy per salire sul Convoglio 69 diretto ad Auschwitz.
Il 22 marzo Bertand è ucciso nel campo di Monowitz.
Il 12 maggio Léon è ucciso a Birkenau.
Il 4 gennaio 1945 Béatrice è uccisa ad Auschwitz.

Da questa mattanza ne escono indenni il Musée Nissin de Camondo, dal 1936 non più una depredabile “casa di giudei” ma di proprietà dello Stato francese (Musée des Arts Décoratifs) e Irène nata Cahen d’Anvers, ex moglie di Moïse de Camondo, madre di Béatrice, nonna di Fanny e Bertrand, fortunosamente convertitasi al cattolicesimo “prima” del 1940, data limite imposta dalle leggi razziali. Sarà lei l’erede dei Camondo.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
scatti del 4 novembre 2015
con l’inserimento di brani estratti da
Lettere a Camondo
un libro di Edmund de Waal
edito nel 2021 da Bollati Boringhieri
e di cui ne consiglio vivamente la lettura integrale


Conosco rue de Monceau piuttosto bene. […] Tutto cominciò venti anni orsono, in una mattina non diversa da questa. Percorrevo lentamente il boulevard Haussman per poi svoltare in rue de Courcelles e raggiungere il tratto dove la via inizia a farsi interessante. Poi mi lasciavo alle spalle l’incrocio con avenue Ruysdaël, in fondo alla quale si scorge la macchia verde del Parc Monceau e, proseguendo, passavo davanti alla mastodontica «mostruosità» di vostro zio Abraham al 61, al vostro elegante portone al numero 63, fino al boulevard Malesherbes. [...]
Le famiglie ebree che si trasferiscono nel quartiere arrivano da fuori. Questo posto offre l’opportunità per portare la propria famiglia in una Parigi laica, repubblicana, tollerante, civilizzata, e di costruire qualcosa con fiducia in se stessi, qualcosa di dimensioni appropriate, pubbliche. Entrambe le nostre famiglie, gli Ephrussi e i Camondo, arrivano nel 1869 ed entrambe, quello stesso anno, comprano un lotto di terreno in rue de Monceau. Al numero 55 c’è l’Hôtel Cattaui, residenza di banchieri ebrei trasferiti dall’Egitto. Dall’altra parte della strada ci sono un paio di Rothschild mentre due dei tre facoltosi ed eruditi fratelli Reinach abitano proprio accanto al parco. Henri Cernuschi, che vive quasi dirimpettaio a voi, non è ebreo ma è esule dall’Italia a causa delle sue idee politiche.










Partendo dunque dalle cucine, attraverso la vostra casa evitando gli spazi pubblici. L’architetto che avete scelto, René Sergent, aveva appena finito di ristrutturare il Claridge’s di Londra quando progettò questi spazi che sono il non plus ultra in fatto di efficienza. Impianto idraulico e di ventilazione all’avanguardia, maniglie delle porte sagomate per adattarsi perfettamente alla mano di una cameriera indaffarata. Le mattonelle di maiolica bianca scintillano. Le linee del grande fornello di ghisa sono sinuose e filanti come quelle di una delle vostre automobili nuove custodite negli immensi garage. Tutte le finestre hanno il vetro smerigliato. La luce è soffusa.




La porta che dà sulle scale di servizio è discreta, la si nota appena. […] Salgo. La prima porta mi conduce nel regno del maggiordomo, l’office coi suoi lavandini di zinco per lavare piatti e bicchieri. Una porta nascosta dà accesso alla sala da pranzo.




Vorrei sapere del cabinet delle porcellane dove, dentro vetrinette a sei ripiani, sono esposti i vostri servizi di Sèvres, les services aux oiseaux Buffon, e dove pranzate da solo: chissà se gettate lo sguardo oltre la finestra, verso i rami degli alberi che ondeggiano dolcemente nel vostro giardino e, più in là, nel Parc Monceau? Nel 1913 fate piantare aceri, ligustro della Cina e susini ornamentali, Prunus cerasifera Pissardii, dalla chioma rosso scuro.



In questa casa ogni stanza spinge avanti, si dispiega, interagisce. Sono nella biblioteca e posso proseguire in tre direzioni diverse. Dal salone principale è possibile accedere ad altri quattro spazi. Ci sono nicchie e recessi, scale a chiocciola che dalle camere da letto salgono agli alloggi della servitù, in modo che gli abiti possano apparire e sparire. Si intravede una scalinata curva che sale disegnando un ampio arco, tagliato da una galleria. C’è un appartamento nascosto per il maggiordomo, una stanza per l’argenteria, un locale espressamente dedicato al travaso del vino.
Avete affidato a René Sergent l’incarico di creare questa casa per voi. [...] Ma in questo edificio, tanto splendido quanto disorientante, l’architetto supera se stesso.















Posso parlarvi delle camere dei ragazzi, monsieur?
Quella di Nissim è un santuario. Quando, nel 1923, Béatrice, Léon e i bambini si trasferiscono nell’elegante appartamento di Neullly, voi trasformate la camera di Fanny e Bertrand in salotto. E in effetti è la stanza più accogliente della casa, con finestre su due lati, rivolte verso il parco e verso la casa di Cernuschi, ora trasformata in museo che espone le collezioni d’arte asiatica del defunto proprietario.






...sono nella vostra biblioteca. Adoro questa stanza. È circolare, dettaglio insolito per una biblioteca, e deve aver messo a dura prova i falegnami che hanno realizzato le librerie.
«[La mia biblioteca] è di forma rotonda con un solo lato dritto, che mi serve per il mio tavolo e la mia sedia; e curvandosi viene ad offrirmi, in un colpo d’occhio, tutti i miei libri...» scrive Montaigne nel saggio Di tre commerci.
Dell’avere biblioteche rotonde: Michel Eyquem de Montaigne e Moïse de Camondo.






E poi [nella camera da letto] c’è quel nudo davvero terrificante sopra il vostro letto. A quanto pare si tratta di un’allegoria del sonno ma è bruttina, a essere sinceri.


I sanitari sono in un recesso al di là di un passaggio ad arco, completamente immerso nell’ombra. Richiudo la porta con estrema discrezione.



CIMITERO DI MONTMARTRE





domenica 16 settembre 2018

Gigi Grana, operaio, alpinista, Accademico del CAI


Stamattina, del tutto casualmente, in una libreria ho scoperto Eravamo immortali, libro che mostra in copertina il volto del suo autore, Maurizio “Manolo” Zanella. Lo apro e subito mi trovo alla pagina che il destino ha voluto propinarmi, dove l’occhio sosta su due parole: Sass Maor. Fulmineo il collegamento: Sass Maor (si pronuncia Maòr), via Biasin-Scalet, Gigi Grana. Leggo le righe sottostanti ed è proprio di quella via che Manolo scrive, ricordando di averla ripetuta e menzionando che la sua era la seconda ripetizione, anni dopo che altri ne avevano fatto la prima “impiegando tre giorni” - il che non è del tutto vero.
Nel libro Manolo non rammenta i nomi di quei primi ripetitori (o secondi salitori che dir si voglia), ma io sì e voglio ricordarli adesso: Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio.



Una volta a casa ho cercato su internet e qui ho trovato Sass Maòr, la supermatita delle dolomiti, uno scritto (ben illustrato) di Francesco Lamo postato il 9 giugno 2011 in alpinesketches, da cui estraggo queste righe:

Nove anni più tardi, nell’agosto del 1964, venne realizzato uno dei massimi capolavori nella parete sud-est: Samuele Scalet e Giancarlo Biasin salirono in 3 giorni le grigie e ripide placche che partono verticalmente a metà della «Banca Orba» e poi continuarono per gli spaventosi gialli soprastanti. Nella parte strapiombante, un diedro giallo e nascosto, la successiva traversata a sinistra e la serie di successive verticali placche nere li condussero alla base della cupola strapiombante, che verrà risolta anche con l’aiuto di qualche chiodo a pressione. Purtroppo, per una banale scivolata sul sentiero del Cacciatore (e a salita compiuta), Biasin morì nella discesa e Scalet decise di dedicargli la strabiliante salita. La tragedia lasciò tracce così profonde in Samuele che decise addirittura di lasciare l’alpinismo.
Scalet dichiarò che in apertura furono usati oltre 200 chiodi, per paura che la salita venisse svalutata, anche se in realtà ne piantarono poco più di 30. In ogni caso la Biasin, come appunto viene comunemente indicata, fu considerata per decenni uno dei banchi di prova per i Dolomitisti di tutta Europa e rimane a tutt’oggi una bellissima salita, difficile ed estremamente esposta. La sua chiodatura, mai troppo eccessiva, mantiene elevato l’impegno: nessun ripetitore, nemmeno il più sfrontato, potrà mai affermare che la Biasin è una salita mediocre o dal limitato significato estetico!
Sarà Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio ad effettuare la prima ripetizione l’anno successivo, mentre il fuoriclasse Renato Casarotto firmerà la prima solitaria invernale nel 1980. Nel 1979 il feltrino Maurizio Zanolla (soprannominato Manolo) ripeterà la Biasin completamente in arrampicata libera, toccando il 7c nello strapiombante muro finale. Attualmente, per chi ripete la salita nello stile classico, le difficoltà toccano il VI+ (obbligatorio) e A0 con passi di A1, per un dislivello totale di 600 metri.



Seconda metà degli anni Sessanta. Avevo preso ad arrampicare - il più delle volte in solitaria per mancanza di un socio - e il Rifugio della SEM dedicato allo “zio” Eubole Cavalletti ai Piani Resinelli era il mio punto di riferimento. Qui, tra una bisboccia e l’altra, conobbi molti alpinisti famosi, altri che lo sarebbero diventati e altri che non ebbero modo di continuare. Erano gli anni dove erano più frequenti i funerali che le feste. Fra tanti, solo alcuni di loro mi regalarono una tangibile amicizia: Domenico Mazzini, Eriberto Pedrotti, Paolo Armando, Giorgio Brianzi e Gigi Grana.
Col Dumenigh feci non poche salite in Grigna, finché un giorno mi disse (in dialetto milanese, ovviamente): sei bravo abbastanza per farti una tua cordata - e mi trovai “licenziato”, in cerca di un secondo - che dopo varie avventure trovai in Giuseppe Verderio, con cui feci cordata fissa fino al tragico 2 marzo 1969, quando lui precipitò dalla vetta della Medale. Eravamo fuori dalle difficoltà, slegati e su di un sentiero, né più né meno di quel che era accaduto a Giancarlo Biasin sul Sass Maor.




Reagii alla morte del Beppe arrampicandomi sulla strapiombante lavagna (l’Onda la chiamano oggi) della parete nord-est del Corno Orientale di Canzo. In un gelido inizio di novembre, assicurato da Diego Pellacini, impiegai due giorni per domare quello strapiombo, a cui diedi il nome Via Giuseppe Verderio. Poi abbandonai le Grigne, i Corni di Canzo e presi a frequentare le Piccole Dolomiti vicentine, territorio che Gigi Grana mi aveva dischiuso. Il venerdì sera le ruote del Gilera 150 cc entravano in autostrada ad Agrate per uscire a Vicenza Ovest e da qui per la SS46 fino al Rifugio Nerone Balasso, allora gestito da Mariateresa e Cesco Zaltron.
Qui mi sentivo di casa perché ritrovavo un amico: conclusa l’esperienza lavorativa in una fonderia di Caronno Pertusella, Gigi Grana era tornato a Schio, la sua città natale. Talvolta lo andavo a cercare a casa sua, dove abitava col padre rimasto vedovo, talvolta ci incontravamo al Balasso. Un fatidico 8 giugno del 1969 - ma stavolta eravamo dalla Lorenza, ex Colonia alpina, a quei tempi un’osteria frequentata da chi andava in Pasubio - Gigi mi presentò una ragazza dai biondi capelli.
- Ha frequentato il corso roccia, mi disse Gigi, e adesso la porto ad arrampicare per farle fare qualche bella via. Quel giorno si andò insieme allo Spigolo del Primo Apostolo: Gigi capocordata, la ragazza bionda saliva da secondo. Io seguivo con un altro compagno. Una volta in vetta lei mi chiese: Dove abiti? Tagliai corto, buttando lì: Milano.
- Milano? Un posto dove non andrò mai, tranciò lei. Infatti …il 19 ottobre del 1970 un assessore ci dichiarava marito e moglie, con residenza a due passi da Milano (e questo aneddoto vuole rimarcare quanto l’aver conosciuto Gigi abbia influito sulla mia vita).
A sua volta Gigi si sposò con Bruna Sella, divenendo i genitori di Silvia.


8 giugno 1969 - Daniella Forestan,
Gigi Grana e Maria Cichellero


Spigolo del Primo Apostolo
29 giugno 1969



Un passo indietro: anno 1968. Gigi aveva promesso ad alcuni suoi amici che li avrebbe guidati sullo Spigolo del Velo, Pale di San Martino, e per l’occasione mi chiese di essere della partita. Nel pomeriggio del 29 giugno, la Seicento del Beppe e le auto degli amici di Gigi (Piero Colombo, il Bula e Giancarlo Balossi) trovano un posteggio in Val Canali. Sopra di noi incombe la Est del Sass Maor. Gigi mi indica la via Biasin-Scalet, da lui ripetuta tre anni prima. Cambiamo gli abiti da città con quelli da montagna, poi via verso il Rifugio Pradidali - e da qui si ha una bella vista sulla Est del Sass Maor. Segue la via ferrata del Monte di Ball e al calar della sera eccoci al bivacco del Velo. Tutte le cuccette sono occupate, noi dormiamo per terra, su un lato del corpo, ché per stare sul dorso non c’è lo spazio.





Strada facendo, Gigi mi racconta di quella salita, di cui poteva vantare una primogenitura morale, essendo stato il primo (in cordata con Samuele Scalet) ad intuirne le possibilità, respinto soltanto dalla volontà di non utilizzare i chiodi a pressione - strumenti poi utilizzati da Biasin e Scalet per vincere lo strapiombo terminale. Vittoria triste la loro: durante la discesa, Biasin inciampò in un pino mugo, perse l’equilibrio e cadde dalla parete.




Gigi mi parla dei fori minuscoli che non accettano i chiodi, problema poi risolto grazie all’uso di un rampino, quel ferro che ai tempi delle stufe economiche serviva per sollevare le piastre circolari messe tra il fuoco e la pentola (ma anche per rimestare la legna, ravvivando la fiamma). Roba da mettere i brividi …quindi invitante. Una volta a casa, mi sono rivolto ad un fabbro chiedendogli di fabbricarne un paio, con robusto anello per poterci mettere il moschettone. Era infatti mia intenzione di tentare la seconda ripetizione (o terza salita) della via dedicata a Giancarlo Biasin …un altro sogno svanito dopo la morte del Beppe.

* * *

Avendo sposato una scledense era naturale che l’andirivieni Lombardia-Veneto si incrementasse. A Schio viveva mia suocera, a cui ero legato da sincero affetto. Alla nascita di Marco (1974) il mio andar per monti aveva già cambiato registro: le vie in verticale-strapiombante avevano ceduto il passo all’esplorazione di nuovi orizzonti. Ora mi dedicavo alla ricerca di vecchi sentieri, ricostruendone la perduta storia, inanellando di tanto in tanto delle ascensioni in solitaria. Presi anche ad interessarmi all’emergente fenomeno delle vie attrezzate (o vie ferrate), di cui intendevo raccontarne la genesi sulla Rivista della montagna, mensile a cui saltuariamente collaboravo.


Dopo il grandioso exploit della prima ascensione solitaria dello spigolo del Sojo d’Uderle - una via firmata da Mario Boschetti e Cesco Zaltron - portato a buon fine in un piovoso giorno di settembre, per Gigi Grana la vita alpinistica si fece difficile. Un paio di incidenti stradali avevano intaccato le sue ossa, l’impossibilità di cimentarsi su altre vie di sesto grado ne intaccarono lo spirito. Quando ero a Schio lo andavo a trovare. Lui era contento di vedermi ma restava un velo… Un giorno gli dissi:
- Perché domani non vieni con me a fare la Mori al Monte Albano?
- Ma la Mori è una ferrata, mi rispose piccato.
- Si, la Mori è una ferrata, ribattei, ma tra lo stare a casa e rimettere le mani sulla roccia non è meglio la seconda? Aggiunsi: e poi da quelle parti nessuno sa che sei un accademico…
Intervenne Bruna: Ha ragione Giancarlo; dai vai con lui che così ti svaghi un po’.
Il giorno dopo passai da casa sua e con la mia R4 arancione valicammo il passo delle Fugazze (italianizzazione di fugassa, nome dialettale della merda vaccina, o boassa), scendemmo a Rovereto e da qui in piano fino a Mori. Cordino e due moschettoni non ci mancavano, ma noi si andava in libera, utilizzando al minimo indispensabile il ferro cementato alla parete, per lo più per le soste ad uso fotografico. Man mano che salivamo Gigi riprendeva a vivere: aveva di nuovo il vuoto sotto ai piedi e tanti ricordi affioravano:
- Giancarlo, non ti pare che questo passaggio ricordi quello della Fox-Stenico all’Ambiez?
- Questo mi ricorda un passaggio sulla nord della Grande (tra le altre, nel 1967 Gigi aveva ripetuto l’Hasse-Brandler, una bella bestia da domare a quei tempi, quando si arrampicava coi piedi infilati negli scarponi di cuoio).


Tra un ricordo e l’altro, in breve arrivammo in vetta - e Gigi riprese la strada verso i monti, portando altre persone sulla Mori e scoprendo altre vie similari: aveva compreso che essere accademici del CAI non impedisce di potersi divertire sul facile.



















Oggi Gigi lo vedo di rado, ma sempre con gioia e immutato affetto: la tomba che condivide coi suoi genitori è a pochi metri di distanza da quella di mia suocera e quando passo non manco mai di fermarmi per un saluto.


NOTA: qualche anno fa sua figlia Silvia mi consegnò tutto l’archivio alpinistico di Gigi. Ho passato quei documenti allo scanner e le ho reso gli originali. Non nego che mi ha sorpreso non poco ritrovare i due fogli da lui utilizzati per chiedere l’ammissione al CAAI.
Spiego: io avevo una Olivetti 22, Gigi i suoi manoscritti. Una sera venne a casa mia e insieme scegliemmo quali salite proporre e quali scartare. Poi, con Gigi seduto al mio fianco, presi a pestare sui tasti, utilizzando sia il colore rosso che il colore blu. In seguito Gigi consegnò quei due fogli a Nandino Nusdeo e ad Angelo Pizzocolo (il mitico Bufera), i due Accademici che avevano deciso la sua cooptazione. Ammesso al CAAI con 36 voti su 36, appena ricevuto il telegramma Gigi mi chiamò al telefono. Il pomeriggio del sabato successivo io e il Beppe eravamo alla Trattoria Stella, l’osteria con alloggio dove Gigi risiedeva a Caronno Pertusella - e da qui la Seicento del Beppe impiegò nove ore per salire alla SEM, tanti erano gli amici con cui condividere quel momento di gioia.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI


Eriberto Pedrotti, Gigi Grana
Giuseppe Verderio, Armando Da Dalt
(Pian Schiavaneis, 10.08.1967)




In Grigna




DALL'ARCHIVIO PERSONALE DI
GIGI GRANA



















 





Lettera di Angelo Pizzocolo
(Bufera)