domenica 30 agosto 2015

Saint-Geosmes, o I Tre Santi Gemelli


Il tempo mi ricorda un fiume himalayano: scorre sempre troppo rapidamente, direzione foce ...e ogni sosta è impossibile. Dico questo perché mi pare ieri e invece son passati almeno vent’anni dalla mia prima volta a Saint-Geosmes, un paesello di circa 500 abitanti che l’espansione edilizia ha ormai unito a Langres, cittadina di 9600 abitanti, dipartimento dell’Alta Marna, regione Champagne-Ardenne, Francia.
In compagnia di mia moglie, a Langres ero arrivato seguendo due piste: la prima, più impegnativa, ci portava a degustare gli ottimi ed economici (vent’anni fa lo erano ancora, oggi non saprei) champagne de la maison suggeriti dai ristoratori - liquidi che poi smaltivamo pedalando pedalando, spingendo le nostre Cinelli Passatore appesantite da quattro borsoni, due davanti e due dietro (io anche la tenda e i sacchi letto per eventuali soste extra-urbane). La seconda, più facile da gestire, prevedeva la visita di vecchi borghi non toccati dal becero turismo all-inclusive, inoltrandoci nei tortuosi meandri della loro storia - e in aggiunta alle sue chiese e alle vecchie case Langres ha da offrire al viandante un qualcosa in più: qui, nel 1713, è nato l’enciclopedista Denis Diderot, come una statua ricorda.

Arriviamo che è primo pomeriggio, quindi l’ora giusta per cercare un alloggio, fare una doccia e prepararsi alla visita della città. Entro in qualche albergo ma niente mi stimola. M’informo e imparo che appena usciti da Langres vi è il villaggio di Saint-Geosmes, con un piccolo hôtel rinomato per il suo ristorante. Inforchiamo le nostre bici e partiamo. In quegli anni l’Hôtel des 3 Jumeaux era una piccola struttura più alta che larga, proprio di fronte ad un allevamento di bovini che saturava l’aria col suo forte odore di stallatico. Monsieur ci consegna le chiavi di una stanza all’ultimo piano - la migliore, dice - e ci riserva un tavolo per la cena. Piacevoli esempi di professionalità, anche se quel giorno saremo gli unici clienti sia dell’albergo che del ristorante. Ricordo un’ottima cena accompagnata da una bottiglia di pregevole Champagne rosé de la maison.
Tra una portata e l’altra, Monsieur risponde ad alcune mie domande: perché questo nome curioso “i tre gemelli”, ma soprattutto - e subito imparo che la faccenda non è disgiunta - la storia della chiesa eretta all’ingresso del villaggio, la cui architettura lascia supporre un glorioso passato. Come sempre accade, lui non va oltre alle solite storie ascoltate oralmente, fiabe “tradizionali” diventate verità rivelata. Chiedo se domani mattina noi due avremo la possibilità di visitarla, visto che oggi abbiamo trovato la porta chiusa. Lui afferma di conoscere la signora che ha in custodia le chiavi e che vedrà di fare il possibile per accontentarci. È estate, fuori fa caldo e l’odore dello stallatico è decisamente forte. Meglio restare dentro al ristorante e aspettare l’ora di salire in camera sorseggiando del buon Marc de Champagne.

Il mattino dopo, mentre siamo intenti ad espletare il rito del petit-déjeuner (e prima di vestire gli abiti da ciclo-turista, che prevedono pantaloncini rinforzati nella parte a contatto con la sella ma privi di un posto dove alloggiare i maschili pendentifs) Monsieur ci comunica d’aver già incontrato la signora incaricata delle pulizie, la quale ha promesso che quanto prima sarà da noi con le chiavi della chiesa - e così è. Lei ci accompagna fino all’ingresso della struttura, ne apre il portone, poi mi consegna le chiavi dicendo che non può trattenersi oltre ma che noi possiamo prenderci tutto il tempo che vogliamo (ricordo perfettamente la sua frase: prenez votre temps, monsieur), salvo poi chiudere la porta e riportare le chiavi alla reception dell’albergo. Ovviamente, prima di lasciarci provvede ad aprire il cancelletto d’accesso alla cripta e premere l’interruttore della luce. Noi ci troviamo padroni della chiesa, con lo scurolo a nostra completa disposizione - e seguendo il consiglio di Madame ...ci prendiamo tutto il nostro tempo.

* * *

Settembre 2013. Siamo di nuovo in Francia, ma con l’auto stavolta. Dopo una rivisitazione dei preziosi reperti merovingici custoditi nel Museo di Metz e dopo una sosta a Verdun, che vanta una bella quanto ignorata cattedrale, imbocchiamo la strada che porta a Digione, la nostra prossima meta. Langres è sulla nostra strada e Saint-Geosmes pure, dove decido di fermarmi per scattare qualche foto in digitale. Coincidenza vuole che proprio in quel momento vedo alcune persone entrare in chiesa; a me non par vero di poter rivedere quella meraviglia e subito li seguo. Una volta dentro spiego loro i miei interessi culturali, chiedendo di poter accedere alla cripta. Mi sento rispondere che sono un uomo davvero fortunato: la porta viene aperta solo per le (rare) occasioni religiose e che loro oggi sono lì del tutto casualmente, giusto per addobbarne l'interno in vista di un matrimonio che si celebrerà il giorno dopo. L'imminente sposa mi apre il cancelletto delle scale che scendono alla cripta, mi accende la luce e …prenez votre temps, monsieur.
A differenza di tanti anni fa, stavolta il fattore sorpresa non gioca a mio favore. So cosa mi attende. L’unica differenza è che al tempo della mia prima visita nella cripta erano in corso degli scavi archeologici, il soffitto era puntellato da travi, la luce decisamente scarsa. Oggi gli scavi sono terminati, il pavimento è stato sistemato, una passerella di legno contornata da parapetti - che ritengo invalicabili per i turisti che aderiscono alle visite guidate proposte nei mesi estivi dall’Ufficio del Turismo di Langres - porta al centro della cripta, dove alcuni riflettori illuminano la scena. Ancora una volta lo scurolo è tutto per noi …e io ho nuove motivazioni per scattare altre immagini, rigorosamente a mano libera e senza l’uso del flash: gli scatti devono riprodurre quello che l’occhio vede.
Delle tre sepolture un tempo furbescamente portate alla luce oggi una sola è visibile: è di pretto stampo merovingico - come già scritto in un altro articolo, sono stati loro ad inventare la bara larga alle spalle e stretta ai piedi, la stessa ancora in auge ai nostri giorni. Poi mi dedico alle colonne, decifrando i decorati capitelli. Giro, assaporo l’atmosfera, scatto foto, esco in superficie. Riossigenato ridiscendo nella cripta per un nuovo giro, sempre oltre i parapetti ma rispettoso del terreno che calpesto. Di fatto, metto in pratica quello che mi insegnato Antonio Thiery: prima di commentare uno scritto lo si deve leggere almeno tre volte, un principio che vale per ogni opera dell’ingegno umano.



Tra i molti scritti che hanno trattato la storia della cripta, della chiesa superiore e della leggenda di Saint-Geosmes ne suggerisco due - le fonti da me utilizzate -, a cui rinvio per ogni approfondimento:
1) Recherches historiques et statistiques sur les principales communes de l’arrondissement de Langres, stampato da Sommier, Langres 1836.
2) Études sur les monuments religieux du diocèse de Langres, par l’abbé Godard Saint-Jean, testo inserito nel Bulletin monumental ou Collection de mémoires ecc., publié par M. De Caumont, Paris 1847.

La leggenda vuole che nel corso del secondo secolo dell’era cristiana san Bénigne, inviato da san Polycarpe vescovo di Smirne a convertire i Galli, arriva ad Autun dov’è ricevuto da sant’Andoche e da un senatore cristiano di nome Faustus. Utilizzo i nomi alla francese non per spocchia intellettualoide bensì perché questi sono “santi-vescovi” tipicamente francesi e come tale vanno trattati - e in Francia a quel tempo essere vescovo ed essere santo era un tutt’uno già in vita. Il senatore consiglia a san Bénigne di portarsi a Langres, dove vive una sua sorella Léonille, nonna di tre gemelli rimasti orfani dei genitori in tenera età, i cui nomi sono Eléosippe, Méleosippe e Speleosippe (o Speusippe), creature allevate da maestri pagani. San Bénigne si dedica alla loro conversione al credo dei cristiani con tanta devozione che per affermare urbi et orbi la loro nuova fede i tre giovincelli trovano giusto rovesciare la statua di Némésis, la divinità tutelare di Langres, e bruciare le statue degli idoli altrui. Denunciati, vengono portati davanti a tre giudici, i cui nomi sono Hermogènes, Palmatus e Quadratus, un fatto che il diffusore di questa leggenda - Warnaharius o Varnier o Garnier, canonico di Langres verso l’anno 600 - vuole datare tra l’anno 179 e il 180, anni che cadono sotto il regno di Marco-Aurelio.
Interrogati dai tre giudici i tre gemelli confermano le accuse. La condanna a morte è inevitabile e i tre giovani vengono portati fuori dalla città e nel luogo detto Urbatus o Urbatum - il punto dove s’incrociano due strade romane: quella che da Alise porta ad Autun e quella che da Lyon porta a Genève - viene eretta la pira su cui dovranno essere arsi vivi (una buona abitudine ripresa dagli Inquisitori). Spogliati dei loro abiti, i tre vengono appesi con delle corde ai rami di un albero per l’immancabile “strappo” utile al loro pentimento. Mostrandosi indecisi a non tradire il nuovo credo, i tre vengono gettati sulla pira dove il fuoco brucia le corde che lega loro le mani e i pedi. Anziché tentare di salvarsi, i gemelli si riuniscono al centro del rogo intonando canti di lode al loro demiurgo (che ricordo essere quello proprio del popolo ebreo, rivisto e corretto) e tutto questo può accadere perché LUI ha deciso che le fiamme siano fredde: scoppiettano ma non bruciano.
Terminati i canti, i tre gemelli chiedono all’ebraico Dio (perché non al Cristo visto che si definiscono cristiani?) di permettere il loro sacrificio e benignamente lui li accontenta: i loro corpi integri cadono al centro del rogo, le loro anime salgono al cielo. Spento il rogo, ritiratisi i giudici e gli spettatori, durante la notte qualche cristiano ricupera i corpi per dare loro degna sepoltura a non molta distanza dal luogo del supplizio- ed è lì che poi sorgerà la chiesa dedicata ai Santi-Gemelli.

Può la saga finire qui? Certo che no e la fantasia di Warnaharius - che scrive tutto questo in una lettera indirizzata a san Ceraume vescovo di Parigi - ha altro da aggiungere. Dunque: Néon, lo scrivano che fungeva da segretario ai tre giudici, sconvolto dalla decisa professione di fede esibita dai tre gemelli si rifiuta di continuare a redigere le tavolette dell’interrogatorio. Passato il suo lavoro al collega Turbon, di fronte ai giudici si professa pure lui cristiano: lapidato sul posto. Vedendo i giovani avviarsi sereni al rogo una donna di nome Junille affida ad altri il neonato che tiene in braccio, si precipita in mezzo alla folla e ignorando le suppliche di suo marito urla di essersi convertita tout-court al cristianesimo: la appendono per capelli ad un albero e poi le tagliano la testa. Vedendo tutto questo, il già citato Turbon molla di colpo il suo lavoro di scrivano e urla pure lui di essersi convertito: terzo martire.  Per Warnaharius tutti questi fatti sarebbero accaduti il 17 di gennaio ...di oltre quattro secoli prima.


La storia non finisce qui. Si vuol credere che i cristiani costruissero verso l’anno 200 un piccolo oratorio sopra la tomba dei tre santi gemelli e che due secoli dopo i loro corpi siano stati esumati ed esposti per essere venerati in una piccola chiesa costruita sopra il primitivo oratorio, mutato in cripta. Nell’anno 600, ovvero ai tempi in cui scriveva Warnaharius, questa chiesa era stata ampliata, assumendo il titolo di basilica, ovvero la chiesa destinata al culto dei morti, di norma circondata da un cimitero o, più spesso, costruita laddove vi era un preesistente cimitero. E qui, a Saint-Geosmes, vale la seconda, come dimostrato da recenti scavi archeologici che hanno portato alla luce numerose sepolture risalenti ai tempi della presenza romana. In seguito, nei pressi della chiesa dei Saint-Geosmes venne costruita un’abbazia, struttura che nell’830 Albéric vescovo di Langres amplia al fine di accogliere dieci canonici e un prevosto. Nell’occasione, lo stesso Albéric farebbe abbattere la vecchia chiesa dedicata ai tre gemelli per sostituirla con una nuova. Uso il dubitativo perché scrivendo di questo aggiunge De Caumont: Ma siccome nessun documento storico parla di una costruzione posteriore, è evidente che la chiesa attuale fu elevata all’inizio del XIII secolo.
Il 19 aprile 859 l’abbazia ospita un concilio presieduto da Remy arcivescovo di Lyon e da Agilmar di Vienne, assistiti da Eblon di Grenoble e sotto la supervisione del re Charles-le-Jeune, figlio dell’imperatore Lothario. Tra i canoni emanati alcuni meritano di essere ripresi: l’8° indica che la promozione di un vescovo compete al solo giudizio del metropolita e dei vescovi dei paesi vicini, mentre il popolo non può avere alcuna parte nella sua elezione. Il 10° vuole che i principi e i vescovi istituiscano scuole pubbliche per l’insegnamento delle sacre scritture, ma solo nei luoghi dove vi sono insegnanti che il clero ritiene capaci. Nell’occasione Isaac vescovo di Langres fa introdurre un inasprimento delle punizioni da elargire ai peccatori della sua diocesi, imponendo il cilicio di spine sulla testa per i peccati “normali”, la galera da 5 a 7 anni dietro la porta della chiesa per i peccati più gravi. Chi vuole rendere meno pesante la vita a questi condannati può loro portare del vino, ma solo dopo aver versato due denari al clero.

Nell’anno 886 Albéric vescovo di Langres rimpiazza i canonici di Saint-Geosmes con dei benedettini; ci restano poco e i canonici rientrano al loro posto. Nell’anno 940 arriva la più che generosa donazione di Hugues conte di Basigny: siccome suo figlio Gotzelin ne è l’abate, lui, il padre, offre all’abbazia 8 meix (abitazione rurale con stalle, campi, orto e giardino) nel villaggio di Forcey nella contea d’Andelot; 240 meix e un mulino nella contea di Bologne; dieci meix coi loro abitanti ad Angoulancourt, nonché la chiesa e la curia di Saint-Pierre de Thivet. Una manna.
Nel 1126 Willelm vescovo di Langres ordina ai canonici di Saint-Geosmes di seguire la regola di sant’Agostino, imposizione confermata nel 1131 da papa Innocenzo II. Nei secoli altre ricche donazioni s’accumulano, rendendo questa abbazia (oggi scomparsa) decisamente ricca e importante.
Il declino inizia con Luigi XIV, che unisce il priorato di Saint-Geosmes all’abbazia di Notre-Dame-aux-Nonains di Troyes, mentre più tardi Gilbert de Montmorin vescovo di Langres ottiene l’estinzione dei canonici, destinando i loro beni immobili e gli introiti pecuniari al seminario di Langres.
Concludo: la facciata e il campanile della chiesa sono della fine del XVIII secolo, epoca in cui la lunghezza della navata è stata ridotta di un terzo.

* * *

Per quanto riguarda la cripta ecco quanto ha scritto il De Caumont, qui da me liberamente tradotto: Scendiamo nella cripta tenebrosa, che riempie l’anima d’una santa riverenza e d’una emozione che non possiamo né vincere né definire. Sedici colonne monocilindriche in pietra calcarea sostengono le volte di tre navate; compresa la base e il capitello esse sono alte 2 m e 7 cm, l’altezza sotto la volta del caveau è di 2 m 53 cm, la larghezza totale è di 6 m 27 cm. […] In paese si ricorda che durante la rivoluzione, quando la chiesa era diventata l’ospedale Geôsmes, nella cripta vi erano le latrine!
Quanto all’età della cripta non osiamo avanzare un parere, tuttavia, considerando il lavoro grossolano dei capitelli, delle cattive modanature e delle teste di animali malamente scolpite, riteniamo che essa risale a un tempo più lontano rispetto alla basilica.

Non meravigliamoci più di tanto di queste critiche: nell’Ottocento tutto ciò che esulava dai canoni dell’arte greco-romana appariva brutto …e a pensarci bene, anche oggi molti professori da salottino sostengono questa tesi: quanto avrebbero da imparare se non fossero così impegnati a sparare strapagate cazzate in TV.

© TESTO E FOTO DI
GIANCARLO MAURI





 






















martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

lunedì 10 agosto 2015

Il Puerto de Ibañeta e la Chanson de Roland


Lo spagnolo Puerto de Ibañeta - detto Col de Roncevaux dai francesi e Colle di Roncisvalle dagli italiano – è il nome dato al valico pirenaico le cui due opposte vallate terminano (o iniziano: una salita altro non è che una discesa vista dal basso) a Pamplona e a Sant-Jean-Pied-de-Port. Quante volte ho valicato questo colle? tante, in tutte le stagioni, col sole, con la pioggia (sovente) e con la neve - e quante diapositive vi ho scattato? tante, ora sepolte in cantina.


Ovunque lo sguardo si posi appaiono cippi di pietra che intendono commemorare il ben noto falso storico reso “fatto di cronaca vera” dalla fortunata leggenda medievale che vuole sia questo il luogo del martirio del prode/beato Orlando, compagno d’armi di Carlomagno, gran massacratore di popoli, quindi vicino ad essere proclamato santo dai gestori di Santa romana chiesa.


Il mio ultimo passaggio è datato 16 maggio 2015: quel giorno a Pamplona splendeva il sole, a Sant-Jean-Pied-de-Port pure, ma non al Puerto de Ibañeta, avvolto nelle nebbie e bagnato da una fitta pioggia, di quella a gocce sottili sottili che subito arrivano alle mutande (sempre che uno le indossi, ovviamente). Ci spaventiamo per così poco? no di certo. Posteggiata l’auto, per me è un must risalire i dolci pendii e da qui scattare nuove fotografie (in digitale, stavolta), immagini qui sotto inserite in sequenza temporale di scatto.

Riparato sotto una rossa mantella vedo passare un homo viator diretto all’ormai prossima sosta di Roncisvalle e la mia memoria subito attiva il tasto rewind fermandosi sugli anni Ottanta, periodo in cui io, Daniella e nostro figlio Marco - non dimenticando Zorba e Felix, due asini presi a nolo per il trasporto dei bagagli – giravamo per le terre di Francia e di Spagna alla ricerca delle antiche strade per Santiago de Compostela. Quelle vere, però, non le iper-segnalate piste di oggi che fanno dire agli spagnoli: un tempo le strade portavano ai corpi santi, oggi portano ai ristoranti.

Bibliografia. Volendo stare su di un terreno facile, per una breve storia di questo valico rinvio a Carlo Magno. Il signore dell’Occidente, Giulio Einaudi editore 2004 (cfr: le pp. 73-80), mentre per la turpinea leggenda propongo un indirizzo internet dove è possibile consultare e/o scaricare la riproduzione fotografica di una manoscritta Chanson de Roland del XII secolo.



In lingua moderna, Il Liber IV sancti Jacobi apostoli e la Historia Karoli Magni et Rotholandi o Historia Turpini - in origine rispettivamente libro V e libro IV del Codex Calixtinus conservato nell’archivio della cattedrale di San Giacomo di Compostella - sono stati riadattati e pubblicati col titolo Compostella. Guida del pellegrino di San Giacomo. Storia di Carlo Magno e di Orlando. Introduzioni di Raymond Oursel e Franco Cardini. Edizioni Paoline 1989.


Aggiungo: chi è interessato alla recente evoluzione del commercializzato pellegrinaggio a Santiago, l’Università di Bergamo ha messo in rete dei dati statistici leggibili all’indirizzo


Se strada facendo decidete per una sosta a Burguete, villaggio poco lontano da Roncisvalle, non dimenticate E il sole sorge ancora, il romanzo di Ernest Hemingway poi ribattezzato per il mercato inglese Fiesta e così rimasto anche in Italia per Einaudi e Mondadori - ma non per Jandi Sapi, il suo primo editore.

prima edizione in lingua italiana: gennaio 1944

prima edizione Einaudi: 23 aprile 1946

Restando in tema di pellegrinaggio, mi piace ricordare sia l’aforisma di Ambrose Gwynnette Bierce: Pellegrino, viaggiatore che si prende sul serio - sia quanto scritto nel 1941 da Yogmaya, prima poetessa “ufficiale” nepalese:

Vanno in pellegrinaggio per lavare i peccati
tiranni e imbroglioni corrono incontro al loro destino.
Prima saccheggiano i miseri averi dei disgraziati
poi si pagano le spese con quel bottino.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
16 maggio 2015