venerdì 20 marzo 2015

Picasso visto da Hélène Parmelin

L'Aubade, 1965

Fedele alla mia scelta editoriale di riproporre brandelli di vite altrui - Leonardo, Hemingway, Joyce e (adesso) Picasso - allego un breve capitolo estrapolato dal citatissimo (dai biografi) libro Picasso dice… di Hélène Parmelin - traduzione dal francese di Domenico Tarizzo, Rizzoli Editore, Milano 1971, pp. 57-63.



Picasso moralista (seguito)

Tranquillamente allineati sul terreno, chiusi negli esagoni dorati delle piastrelle di ceramica, dei diavoli o dei fauni, degli uomini insomma, facendo sfoggio di tutta la loro virilità, perseguitano col loro ardore, decisi a violarle, ninfe chiomate, fuggenti, spaurite, con tutte le loro grazie esposte: delle donne insomma.
Queste sarabande sfrenate di seni, capelli, sessi, barbe, fianchi, con i piccoli tratti d’unghia ai margini, sono contenute nel piccolo spazio di una piastrella. «Sarebbe carino, un’intera stanza piastrellata così» dice Picasso.
Le ha fatte in una settimana dell’agosto 1962. Nessuna donna o ninfa è consenziente. Ma appare evidente che l’uomo, il diavolo, il fauno avrà l’ultima parola. Nessuna bella fuggitiva si sottrarrà a lungo a simili armi, né a volontà così deliberatamente aggressive. E così trionfanti.

Ieri, grigia giornata d’ottobre, ho fatto con un amico una lunga passeggiata nel parco di Versailles, scendendo verso il grande canale e il Trianon, in mezzo ad alberi d’oro, in una divina solitudine, ben presto però un po’ triste.
Fortunatamente c’erano delle statue, che il parco deserto rendeva più piacevoli del consueto: una quantità di Ercoli e di Apolli, ogni genere di amabile divinità più frequentabile del silenzio dei viali. Le loro foglie di vite ben assestate, più aderenti di guaine d’atleta, donavano alle loro figure una dolcezza ermafrodita.
Ercole stesso, malgrado la clava e l’immancabile leone Nemeo, ne traeva una sorta di angelismo morbido, ben in carattere con la sua natura di statua di Versailles, povero Ercole!...
Picasso si sarebbe divertito se avesse saputo che camminando severamente in questo parco solitario e gelido (ma con gli occhi fissi sulle foglie di vite come la dama di una caricatura in visita al museo) io pensavo al posto che occupano i sessi nella sua pittura: non intendo l’uomo e la donna ma i loro attributi.
Un posto enorme. E in piena evidenza, realistico, in una parola. Intendo cioè dire che il posto che occupano non è maggiore di quello del quale la natura li ha resi degni...
Nella pittura di Picasso tutto è naturalmente conforme alla realtà, comprese quelle parti del corpo umano che nell’uomo e nella donna hanno una funzione primaria.
Il sesso di una donna, il suo occhio, la mano, il piede hanno diritto allo stesso sguardo da parte del creatore responsabile.
Gli occhi, nei volti raffigurati da Picasso, si muovono, si allungano, si ergono verticalmente o si volgono le spalle, sono come fiori o pesci, si incalzano come ondate o si sovrappongono come croci; i nasi si dispiegano, espongono il loro profilo e le loro nari, si aprono, si raddoppiano, si siedono o si coricano sul volto, tutto all’interno di una realtà sovreccitata, di una verità più vera, di una poesia più libera; nello stesso modo i sessi diventano qui pittura come in nessun’altra opera conosciuta. Con la medesima naturalezza, con la medesima disinvoltura. Come forse accade solo nei poeti.
E pensare a Picasso, a tutto questo e ai poeti, mi rimanda ad Apollinaire, di cui Picasso parla così spesso, come parla spesso di Max Jacob. «E Salmon?» mi chiede sempre quando arrivo.
Ad ascoltarlo parlare di quel tempo di poeti, si può immaginare la loro gioventù intenta a produrre quell’infinita libertà che li ha fatti ciò che sono. Se Picasso canta una canzone «di Max» o parla di Apollinaire, avviene qualcosa per cui si è al di là del tempo. Si è altrove. Ed è qualcosa di sfrenato, di generoso, di traboccante, una creatività impetuosa, una follia di parole e di idee in cui in piena naturalezza si colloca la verità ed esplode.
«Ombre del mio amore.» Penso a quei poemi di Apollinaire, dove i seni e le “natiche di rosa” di Lou fioriscono tra i canti del soldato-poeta, in mezzo agli orrori della guerra.

O gracieuse et callipyge
Tous les culs sont de la Saint-Jean...

un roseo ardore d’amore esasperato di sbocciare e di poter solo immaginare, in mezzo alla morte, la meraviglia di amare una donna e la donna e di far di questa rosea pelle un sogno tra i cannoni e le trincee, tutto ciò si dispiega nei versi, l’amore e il desiderio che moltiplicano l’amarezza della morte, la morte che ingigantisce l’immaginazione dell’amore... Finché avanza ciò che, negli stessi poemi, Apollinaire profeticamente chiama «il fatale zampillare del mio sangue sul mondo».
C’era tanto Picasso in Apollinaire, c’è tanto Apollinaire in Picasso.
Il fauno d’amore e l’uomo in guerra sono lo stesso loro personaggio, l’uomo in guerra e l’uomo in tutto.

Che facciano l’amore o la guerra, gli uomini e le donne di Picasso rivelano in piena naturalezza di non essere angeli. Per Matisse, il sesso scivolava via, spariva tra le cosce dell’odalisca. Esisteva soprattutto in armonie, colori e arabeschi, per lo più era solo un punto di intersezione del corpo, raramente diceva il suo nome.
Gli splendidi nudi di Matisse non hanno sesso, come non hanno sguardo. I nudi di Picasso hanno l’uno e l’altro. Per lui il sesso del nudo è una parte indispensabile del corpo di cui va cercando la realtà: sembrerebbe un’affermazione lapalissiana, eppure il pudore da secoli livella i corpi. Anche se a nessuno è mai venuto in mente di cancellare dal volto il naso, questa appendice protesa e annusante.
Per Picasso, il sesso, della pittura e della realtà, è un segno dai molteplici significati come l’occhio, è l’occhio del corpo, il suo punto cruciale, un fiore che sboccia in tratti, macchie o colori in cima allo stelo che nasce dal congiungimento delle gambe. È sempre quello di un innamorato e di un poeta, senza ritegno e senza malinteso.
E se Picasso canta l’amore, conosce un solo modo di farlo. Per di più, vi sono quella sua vivacità spagnola, quella felicità dell’amore, quel costante stupore dell’impeto in tutto, quella capacità di vita senza freno, che danno alla sua opera un respiro così ampio.
Un giorno Picasso voleva far piacere a un amico. Disse:
Ti faccio un disegno”.
«Splendido!»
Cosa vuoi come soggetto?
«Vorrei un disegno sull’amore.»
Picasso disegnò un uomo e una donna che fanno l’amore. Era un disegno magnifico e un magnifico amore. Vi è sempre in Picasso, come in tutti gli esseri che amano l’amore, una specie di intenerimento e di emozione di fronte alla coppia, e ciò colmava il disegno di calore e di tenerezza.
«Ma che cosa posso farne?» disse imbarazzato l’amico. «Non oserò mostrarlo e tanto meno appenderlo.»
Lo tenne nascosto per anni. Quando fu finalmente esposto, quel disegno non turbò mai nessuno.
Picasso ricordò a lungo l’incidente, che trovava terribile.
E a qualcuno che un giorno diceva, non so più a proposito di cosa, che in arte non può esserci pudore, rispose che la pittura poteva dipingere qualsiasi soggetto, a condizione che fosse vera pittura.
Solo quando la pittura non è tale, può esserci oltraggio al pudore.

Tutta la pittura di Picasso glorifica la virilità, e non solo la glorifica, ma l’associa com’è naturale alla potenza, alla violenza, ed eventualmente alla distruzione e alla vittoria.
In un quadro non sopprimerebbe né il sesso dell’uomo né il seno della donna.
Tutti i suoi tori portano ostentatamente gli attributi che fanno la loro potenza. Tutti i terribili cavalli dei guerrieri e delle guerre conducono la loro battaglia di stalloni contro gli uomini, schiacciano l’umanità col sesso in piena evidenza, guerriero e cavallo a un tempo.
Lì è la loro forza e il simbolo della conquista.
Il toro nell’arena, senza i segni della sua virilità diventa l’animale da macello, di quel macello che si sta per farne. Ma se è toro, qui risiede il segreto del suo furore eterno e della sua indomabilità.
Resta l’amore, e Dio sa quanto ne sia impregnata l’opera di Picasso, perché l’amore è la vita stessa. Con tutte le risorse e con tutte le materie del suo mestiere egli ha generato la più numerosa folla di amanti, centauri, ninfe, dei, belle, uomini e donne, spagnole e matadores, nudi a colazione sull’erba, donne d’Algeri, grandi nudi in piedi, seduti, coricati, migliaia di disegni in cui la coppia eternamente cerca l’amore e se ne inebria.
Eppure non vi è nulla di più casto della pittura e del pittore che dipinge. Basta guardare «Il pittore e la modella». La modella è sempre nuda. Come la realtà. Il pittore sempre severo nelle sue vesti di pittore, dietro il cavalletto, preoccupato esclusivamente del problema di dipingere di fronte al nudo. Anche se il clima d’amore nel quale egli può vivere lo riempie e gli dona l’incomparabile ricchezza dei giorni dell’amore, la tela lo chiude e lo astrae. Allora la verità dell’amore si esprime, pittoricamente, all’interno del quadro, nell’intimo di quello strano mondo che è quello del pittore nell’atto di di­pingere.

Il mondo rimprovera a Picasso, e ci vorrà molto tempo prima che smetta, la sua libera rappresentazione della figura umana e l’emancipazione che egli ha dato ai tratti del viso e del corpo per meglio esprimerne la vita.
Eppure nessuno ha esaltato come lui la donna e la sua femminilità, la sua bellezza e fragilità, la sua dolcezza, la sua maternità. Davanti a questo corpo egli è un eterno stupefatto e continua a cantarlo. E a interrogarlo. È quello che egli piange, torce, squarcia nei disastri della guerra o nei massacri degli Innocenti. È il soggetto che preferisce dipingere, più di ogni altra cosa al mondo.

Quando Picasso ha dipinto la serie dei «Déjeuners sur l’herbe», l’esposizione si aprì a Parigi con le tele da un lato e i disegni dall’altro.
Nel frattempo nello studio di Mougins i «Déjeuners sur l’herbe» continuavano a crescere e a moltiplicarsi.
Quando da Parigi si parlava per telefono con Picasso a Mougins, e gli si raccontava delle esposizioni e dei vernissages, lui rispondeva sempre: «Ma qui continua, sapete. La cosa va avanti!». Disegnava e disegnava «Déjeuners sur l’herbe». A forza di disegnarli o di dipingerli, tutti i personaggi che vi partecipavano cominciavano a vivere una vita propria, a esistere, con i caratteri dati loro dai disegni, da un «Déjeuner» all’altro. Tra quei bei nudi campagnoli e i barbuti intellettuali sempre impegnati a parlare, con le loro mani eloquenti, i loro bastoni da passeggio e i cappelli, un bel giorno accadde quel che fatalmente doveva accadere.
«Ci si meraviglia persino» disse Picasso «che non sia successo prima.» Il nudo di Manet di Picasso stava finalmente per diventare preda di quei bei parlatori correttamente vestiti. O almeno essi stavano facendogli una corte... visibile.
«Non si può immaginare cosa stia succedendo» diceva Picasso «Cose orribili!...»

Così terminò, in modo perfettamente naturale, la lunga e severa conversazione, sull’erba della colazione, tra i nudi e i signori.

Coppia che fa l'amore, 1902
Due nudi e un gatto, 1903
Gli amanti, 1904
Il pittore e la modella (Eva), 1914
Lo stupro (L'abbraccio)
Suite Vollard, tav. 29, verso il 1933
Lo scultore e la sua modella
Suite Vollard, tav. 63, 3 aprile 1933
Il Minotauro beve in compagnia dello scultore e di due modelle
Suite Vollard, tav. 85, 18 maggio 1933
Il Minotauro aggredisce un'amazzone
Suite Vollard, tav. 87, 23 maggio 1933
Toro 3, 1945
Toro 5, 1945
Toro 8, 1946
Toro 11, 1946
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1962

domenica 15 marzo 2015

Picasso a Vallauris - di Antonello Trombadori


Inserisco uno scritto di Antonello Trombadori
che integra il mio post
Picasso a Vallauris

Parlo con la pittura[1]

Queste notizie e questi pensieri ci sono stati trasmessi dal critico Antonello Trombadori, che sull’argomento aveva già scritto in precedenza due articoli: il primo sul settimanale «Vie Nuove», Roma, 25 gennaio 1953; il secondo sul quotidiano «l’Unità», Roma, 9 luglio 1958.[2] Di particolare interesse, per la loro rarità, sono i riferimenti che Picasso fa alla sua pittura di paesaggio.

Nel giugno del 1958 andai a trovare Picasso alla «Californie». Si sarebbe dovuto inaugurare il Tempio della pace con la definitiva collocazione nella vecchia cappella a cunicolo di Vallauris dei due grandi pannelli La Guerra e la Pace, dipinti nel 1952, e della lunetta terminale quasi ancor fresca di colore.
Con pretestuosi motivi di «sicurezza» (la cappella non aveva doppia uscita), un’ordinanza di polizia impedì che la cerimonia si svolgesse secondo le previsioni. Finimmo così in pochi amici per festeggiare ugualmente Picasso nel giardino della «Californie», dove egli stesso sistemò a terra gli elementi della lunetta: quattro figure sagomate, bianco, giallo, rosso, nero, le quattro razze umane, sollevanti, da una base verde contro un mondo azzurro, la colomba della pace. Lo stesso insieme che si può oggi ammirare nell’abside della cappella di Vallauris, priva ancora di doppia uscita. Il motivo della proibizione disposta dal ministro gollista Berthoin fu, infatti, nel 1958, stupidamente politico.[3]
«Io non faccio discorsi» disse Picasso. «Io parlo con la pittura. È per questo che oggi hanno voluto impedire l’apertura del Tempio della pace. Le guerre condotte contro il popolo sono sempre gravide di fascismo. Così accadde nel ’36 con Franco. Mi viene in mente che ai tempi in cui la Spagna perdeva le Fiandre, i Paesi Bassi e tutto il suo impero, un pittore di blasoni eseguì per il monarca, a guisa di emblema araldico, un sistema con secchia e verricello. Il cartiglio sentenziava: Plus on lui enlève - plus il est grand».
È un tipico esempio dell’ironia di Picasso, sempre polivalente, mai ambigua. Alludeva a se stesso, a quel monarca della pittura che più riceve colpi e più è trionfatore, ovvero al popolo inesauribile fonte di energia, ovvero, con amarezza, al pozzo senza fondo della stupidità umana? Tutte le versioni dell’apologo funzionano egregiamente, come in un ritratto di Picasso dove l’orrido e il bello, il normale e l’anormale, sono intercambiabili e formano una compiuta ma sempre aperta unità. A me tornano a mente le parole pronunciate da Picasso sei anni prima, quando mi mostrò, nel capannone di Vallauris che gli era servito da luogo di lavoro, Il massacro in Corea e le pitture, appena terminate, de La Guerra e la Pace.
«Per raffigurare il volto della guerra» mi disse in quella occasione «non ho mai pensato ad alcun attributo particolare, salvo quello della mostruosità. Tanto meno all’elmetto o alla divisa del soldato americano, o di qualunque altro esercito. Io non ho nulla contro gli americani. Io sto dalla parte degli uomini, di tutti gli uomini. Per questo non ho saputo immaginare il volto della guerra separato da quello della pace. Anche la pace non m’è venuta in mente con altri attributi che quelli dell’assoluto appagamento dei bisogni umani e della piena libertà degli uomini sulla terra. L’arte deve porre un’alternativa. Vorrei che la mia opera aiutasse gli uomini a scegliere dopo averli obbligati a riconoscersi, secondo la loro autentica vocazione, in una delle mie immagini. Tanto peggio per chi, essendo costretto a riconoscersi nei mostri della guerra, sarà ancora tanto debole da non saper cambiare strada».
Il giorno dopo andammo a colazione sulla collina di Mougins. Da quell’altezza riappare in natura lo stesso paesaggio della baia di Cannes che Picasso ha più volte iperbolizzato sulla tela. Mi disse:
«Bisogna tornare a dipingere il paesaggio con gli occhi. Per vedere una cosa occorre vederle tutte. Il paesaggio si deve dipingere con gli occhi e non con i pregiudizi che stanno nella nostra testa. Magari con gli occhi chiusi,» corresse per timore di avere esagerato «ma con gli occhi».
A quel punto due piccoli aerei volteggiarono tra le sponde delle colline.
«Sono farfalle in amore» commentò Picasso. «Ricordo due versi di Apollinaire per un mio vecchio disegno, un disegno di pecore e capre che brucavano. Apollinaire scrisse: “Mes enfants si vous ne serez pas sages / vous ne mangerez plus du paysage. Davvero l’uomo non mangia che paesaggio, e se è un fatto che il paesaggio muta nel tempo non è detto che esso debba forzatamente mutare per le follie degli uomini, le guerre, le brutture edilizie. L’avvertimento di Apollinaire era perfetto: figli miei, se non sarete buoni...».
Poi, tornando al tema del paesaggio dipinto con gli occhi e puntando il dito in direzione di un’enorme tazza di porcellana isolante all’incrocio dei fili dell’alta tensione, disse: «Sarebbe bello dipingere quel solo particolare. Ma per capirlo e trasformarlo in immagine occorre dipingere l’intera veduta che lo fa esistere così. Non è possibile dipingerlo direttamente senza tutte le sue infinite relazioni. Una volta dipinsi un paesaggio interminabile: colline, terrazze, mare, alberi e non so più che cosa. A un certo punto trovai sul mio cammino una pesca. La dipinsi con attenzione ed evidenza, con avidità. Alla fine mi accorsi che di tutto il resto non m’importava nulla. Volevo dipingere proprio quella pesca. Ma la pesca da sola non avrei nemmeno saputo vederla».


Queste note a pie' di pagina sono di Giancarlo Mauri


[1] Estratto da: Pablo Picasso. Scritti, a cura Mario de Micheli, SE 1998.
[2] L’articolo, pubblicato domenica 6 luglio e non il 9 come scritto nella presentazione, si legge qui:
Ve ne propongo l’incipit:
CANNES, luglio - Nei giorni stessi in cui il ministro gollista Berthoin vietava l’inaugurazione del «Tempio della Pace» di Vallauris, il governo francese riammetteva in patria, a piede libero, l’ex ministro dell’Educazione Nazionale di Vichy, Abel Bonnard, condannato a morte per intelligenza col nemico nel 1945 e vissuto tredici anni in Ispagna sotto la benevola protezione di quei vescovi e di Francisco Franco.
I lettori conoscono la storia del sorpruso di Vallauris ma non è male ricordarla alla luce di questa eloquente coincidenza. Come non è male sapere che la motivazione della Direzione dei Musei di Francia per impedire l’apertura del «Tempio della Pace» («la vecchia cappella non ha una uscita di sicurezza») è una sciocca menzogna: poco lontano da Vallauris, a Villefranche, un’altra vecchia cappella priva di doppia uscita, ma tuttora consacrata e decorata dagli affreschi religiosi di Matisse, è da tempo aperta al pubblico senza avere mai attirato la vigilanza delle autorità. […]
[3] L’Unità, venerdì 4 luglio 1958, pagina 8:
PARIGI, 3 - Il governo De Gaulle, con un nuovo gesto arbitrario, ha proibito la grande manifestazione repubblicana che il comitato di resistenza contro il fascismo aveva deciso di organizzare in Piazza della Repubblica il prossimo 14 luglio, 169. anniversario della presa della Bastiglia.
Proprio ieri, nel corso della sua conferenza stampa, André Malraux aveva detto: «Noi vi chiediamo di giudicarci in base in base alle nostre azioni né più né meno». Dopo di che, avendo De Gaulle congedato il Parlamento, sequestrato recentemente i settimanali «France Observateur» e «l’Express», interdetto l’accesso al Tempio della pace di Picasso e messo in soffitta il 14 luglio (il tutto in poco più di un mese d’attività), si può dedurre che il generale ha il più sovrano disprezzo della democrazia e delle tradizioni democratiche francesi. […]

lunedì 2 marzo 2015

Le date (e gli indirizzi) di James Joyce. #2 a Trieste e a Roma


1905, primi giorni di marzo: la polizia austriaca ha deciso di espellere tutti gli stranieri da Pola e i Joyce, costretti a partire immediatamente, prendono la strada per la triste Trieste, gioco di parole che unito al termine noia riporta alla memoria quanto scritto da Stendhal, vissuto in questa città nel 1831. Ma le opinioni sulla noia sono a loro volta noiose: mi divertono di più le fulminanti sentenze alla Jean Cocteau, tipo: “Goethe? Se fosse stato un genio lo si sarebbe saputo.”



Rientro in carreggiata e riprendo a raccontare delle date e degli indirizzi joyciani, di fondamentale importanza per capire i suoi scritti. Sì, perché Joyce ama raccontare fatti reali, camei di vita vissuta, ritratti di persone da lui conosciute, frasi da lui ascoltate. Nessun ricorso alla fantasia del romanziere, ma un’attenzione alla verità dei fatti degna della miglior scuola di pignoleria. Un esempio? Il suo libro sui Dubliners - suggerisce all’editore Grant Richards - è stato scritto “per la maggior parte in uno stile di ricercata bassezza” e intriso dello “speciale odore di corruzione, che, spero, aleggia nei miei racconti”, un ricordo, questo, degli anni “di angoscia e collera” passati vagando dall’una all’altra delle squallide case affittate da suo padre nei quartieri più infimi popolati dai sub-cittadini “esclusi dalla festa della vita”.
Scrive Ellmann in James Joyce, op. cit., p. 253: «Non era affatto cosa sicura che i suoi racconti avrebbero trovato un editore, e questa incertezza durò per altri nove anni. “Non riesco a scrivere se non offendo qualcuno,” constatò. Tuttavia era soprattutto al verismo che egli attribuiva il particolare pregio dei racconti. Prima d’inviarli in esame a Grant Richards il 3 dicembre verificò scrupolosamente tutti i particolari. Chiese a Stanislaus di accertarsi se un prete può essere sepolto con l’abito talare, come padre Flynn in The Sisters; se le vie Aungier e Wicklow si trovano nella Royal Exchange Ward e se un’elezione municipale può aver luogo in ottobre (per Ivy Day in the Committee Room); se i poliziotti di Sydney Parade appartengono alla divisione D, se l’ambulanza della città può accorrere a Sydney Parade per un incidente e se una persona rimasta ferita là può essere trasportata e ricoverata al Vincent’s Hospital (per A Painful Case); e infine (per After the Race) se i poliziotti ricevono le provvigioni dal governo anziché per contratti particolari.»

1905, 5 marzo: pochi giorni dopo il loro arrivo a Trieste, dove Almidano Artifoni ha offerto a James un posto di insegnante alla Berlitz miseramente retribuito, i Joyce si sistemano in una camera al n. 3 di piazza del Ponterosso, terzo piano, con vista sul Canal Grande, dove rimangono un mese in quanto la padrona di casa, la moglie del fruttivendolo con negozio al piano terra, li informa che non gradisce avere tra i piedi dei piccoli urlanti. A pochi passi, in riva Carciotti (oggi riva III Novembre) c’è la chiesa greco-ortodossa di San Nicolò e Joyce, sensibile agli aspetti esteriori della recita ecclesiastica, inserirà questa esperienza in The Sisters, il racconto che apre Dubliners (Dublinesi, malamente tradotto in Gente di Dublino), ma anche in Dedalus.
Nora è visibilmente incinta e trovare una nuova stanza non è cosa facile. Ai Joyce viene in aiuto la signora Canarutto - moglie del tappezziere Moisé, con bottega in piazza Scuole Israelitiche 2 -, che affitta loro una stanza del suo appartamento di via San Nicolò 30, secondo piano, a due passi dalla Berlitz School, che è al primo piano del n. 32 (ma nel 1906 si trasferirà in un palazzetto liberty di fronte, al n. 33, e poi, nel 1908, in via della Cassa di Risparmio 1). Nora non apprezza la cucina di casa Canarutto e James le offre pranzo e cena nei ristoranti socialisti della zona, un aggravio di spesa così da lui commentato: “Non faccio che farmi prestare soldi”. In effetti la Berlitz paga poco e Almidano Artifoni usa terrorizzare i docenti con continue minacce di licenziamento qualora questi avessero dato lezioni private. Malgrado il diktat del direttore, i buoni auspici di un allievo, il conte Francesco Sordina - un facoltoso commerciante d’origine greca, domiciliato al n. 2 di via della Barriera Vecchia, oggi corso Saba 6 - forniscono a Joyce un certo numero di clienti importanti.
L’obbligata convivenza in una stanza d’affitto, la palese infelicità di Nora e il frustrante lavoro alla Berlitz spingono Joyce a cercare sollievo fuori casa e il caffè Stella Polare - in via Sant’Antonio, all’incrocio con via Bellini - è tra i suoi preferiti. Altre volte lo si incontra nelle osterie All’Alpino di via Rittmeyer 20, Ai due dalmati o Al pappagallo - entrambi in via Capitelli -, Ai due leoni in via dell’Arcata 16, non dimenticando il quartiere dei bordelli dell’area di Cavana «una città vecchia dalle decrepite stamberghe, con i muri marciti, le quali si stringono insieme le une alle altre sulle luride viuzze sospette, sotto cui una moltitudine di fetidi canali primitivi inquinano il sottosuolo e infettano l’aria con le loro esalazioni. Chi passa per la città vecchia durante lo scirocco è colpito da un puzzo, e cerca di trattenere il respiro: sono le esalazioni di gas mefitici, i quali provengono dal sottosuolo attraverso le connessure e le aperture del lastrico, e dalle casupole. Ognuno raccapriccia quando, passando per via, vede aperto, per necessità di restauro, uno di quei rigagnoli melmosi, dalle pareti sconquassate e permeabilissime […] I canali sono coperti dalle sole pietre del lastrico, dalle connessure delle quali e dalle altre aperture ad ogni pioggia forte rampolla, scorrendo per le vie, l’acqua infettata delle materie fecali, la quale dove il lastrico si avalla, forma delle pozzanghere i cui sedimenti, dopo asciutti, diventano polvere respirata dai polmoni». [Itinerari Triestini. James Joyce, di Renzo S. Crivelli, MGS Press, Trieste, 2008, pp. 47 e 49]. Questi bassifondi, insieme a quelli ancor più fetidi dell’area dei bordelli di Dublino, si ritrovano nel XV episodio di Ulysses (Circe).
1905, 27 luglio; fa caldo e Joyce vorrebbe passare il pomeriggio al mare, ma dopo una sosta al bar decide di rientrare a casa, dove trova Nora in preda a forti dolori che i due interpretano come il frutto di una indigestione. In realtà Joyce aveva sbagliato a contare i mesi della gravidanza: i coniugi erano convinti di essere all’ottavo ...anziché al nono. Infatti, è la più esperta padrona di casa a parlare di doglie e a chiamare una ostetrica, mentre James corre da un suo allievo, il dottor Sinigaglia, chiedendogli la cortesia di essere lui ad assistere la partoriente. Alle nove di sera nasce Giorgio. Il giorno dopo James manda un cablogramma a Stanislaus: “Figlio nato Jim”, seguito da una lettera in cui chiede al fratello di farsi prestare dall’amico Vincent Cosgrave una sterlina per pagare le spese del parto.

Tra un trasloco e l’altro James non ha smesso di scrivere il suo Stephen Hero. Si legge in Ellmann, op. cit., p. 250: «Il 15 marzo aveva terminato diciotto capitoli, venti il 4 aprile, ventuno a maggio, ventiquattro il 7 giugno. […] Gli mancavano ancora trentanove capitoli da scrivere per Stephen Hero; ma intanto, con rapidità molto maggiore, riuscì a dare una buona spinta a Dubliners. L’8 maggio aveva già scritto A Painful Case; The Boarding House fu pronto per il 13 luglio e Counterparts per il 16; Ivi Day in the Committe Room fu terminato il 1 settembre, An Encounter il 18, A Mother alla fine dello stesso mese; Araby e Grace durante ottobre. A luglio, comunicando che presto avrebbe finito il libro, annunziò che ne sarebbe seguito un altro, intitolato Provincials. Al principio dell’autunno studiò la disposizione del materiale di Dubliners. Nel saggio A Portrait of the Artist e in Stephen Hero, aveva insistito sulla necessità di rappresentare il proprio io sia nella fase della puerizia che in quella della maturità. In Dubliners volle vedere anche la città come un individuo la cui vita poteva essere distinta in quattro fasi, la prima rappresentata da bambini, l’ultima da personaggi ormai maturi.»


1905, autunno: James insiste perché suo fratello Stanislaus lo raggiunga a Trieste dove c’è una cattedra vacante alla Berlitz e Artifoni non avrebbe problemi ad assumerlo. Stanislaus, che ha ventun anni, deve decidere tra un nero futuro da impiegato sottopagato a Dublino, oppure riunirsi al fratello e condividere con lui gioie e debiti. Alla fine decide per questa seconda opzione e il 20 ottobre lascia Dublino. Dopo un viaggio “monacale” sui vagoni ferroviari di quarta classe per mancanza di denaro, appena installatosi in casa Canarutto, in una stanza accanto a quella del fratello, Stanislaus viene informato che James è rimasto con un solo centesimo in tasca, con immediata richiesta di un prestito. Il giorno dopo Stanislaus inizia a lavorare alla Berlitz in cambio di 40 corone alla settimana, soldi che James fin da subito ritira per lui, aggiungendoli ai suoi quarantadue. Una cifra discreta, tutto sommato, ma ben poca cosa se affidata a James: pranzi e cene in trattoria, serate passate a bere nei bar o frequentando bordelli contribuiscono a tenere la famiglia nella continua povertà.

1906, gennaio: i Francini propongono ai Joyce di tornare a vivere tutti insieme in un solo appartamento, come ai tempi di Pola, suddividendo le spese. Detto fatto, il 24 febbraio i Joyce e i Francini si installano nella casa al n. 1 di via Giovanni Boccaccio, secondo piano. Nora continua a non voler cucinare e quindi i Joyce riprendono a frequentare ristoranti e trattorie, quali l’Antica Bonavia al n. 4 di via Procureria. James, terrorizzato dall’idea che Nora potesse restare di nuovo incinta, pratica un suo personale metodo di controllo delle nascite: quando non lo trovano ubriaco in qualche bettola è facile trovarlo in qualche bordello. Francini, nella sua conferenza Joyce intimo spogliato in piazza pubblicata come opuscolo nel 1922, ci rende partecipi di alcune frasi ascoltate in quel periodo di convivenza: «Mia moglie ha imparato l’italiano, il che basti a far debiti comodamente. Io non li pago. Li pagherà Berlicche? [Berlitz] ciò non mi riguarda. I creditori mi dicono di mettermi in giudizio. Mi no go giudizio. Se se trataria de scoder tanto, tanto… ma pagar? Mi no mi. E go mastruzà la petizion. […] L’agente delle tasse è un ignorante che mi secca continuamente mi ha empito il tavolo di foglietti a mano dove c’è scritto: Monitorio, monitorio, monitorio. Io gli ho detto che se non la smette lo mando a farsi fo…raggiare da quel tagliaborse del suo padrone. Il tagliaborse è il governo di Vienna. Potrà esser domani quello di Roma. Ma o Vienna o Roma o Londra, per me i governi son tutti a un modo, filibustieri. […] Questa mattina - cosa strana perché non mi càpita mai - ero senza il becco di un quattrino. Sono andato dal mio Diretor e ghe go dito come che se; gli ho chiesto un anticipo sullo stipendio. La chiave della cassaforte non la jera inruginida; ma el Diretor mi ha rifiutato l’anticipo dicendomi che sono un pozzo. Gli ho risposto che ci si affoghi e me ne sono venuto”. “Ostrega, ma come fazzo mi povaro! […] Mia moglie non sapesse far altro, sa far figlioli e bolle di sapone. Bene, così non moriremo mai di fame. I figliuoli portan ricchezza, dice un proverbio italiano. Infatti Giorgio ha le scarpe rotte. Ma mia moglie se ne frega e seguita a far bolle di sapone. Cogliomberi! Se non ho giudizio, dopo Giorgio primo, essa è capace di scaricarmi il secondo del ramo maschile della dinastia. […] No, no, Nora mia, questo scherzo mi capacita poco. Perciò, finché a Trieste ci saranno petesseri, credo che al tuo uomo convenga passar la notte fuori a ciondolar come una pannuzza.»
Agli affanni economico-famigliari si uniscono le delusioni letterarie: Chamber Music non trova un editore. Dubliners si scontra col tipografo che chiede continue modifiche al testo, da lui ritenuto immorale: in un racconto James parla di “un uomo con due case da mantenere”; in un altro il tipografo arrossisce all’idea che un uomo possa “avere” una ragazza; il terzo punto è più indigesto: in un racconto una donna cambia continuamente le posizioni delle gambe. Non può essere accettato dalla morale corrente, dice lui, il tipografo censore. Ancora: a Richards, l’editore, non piace che Joyce inserisca più volte in un racconto la parola bloody (maledettamente), termine usatissimo in inglese come rafforzativo nelle imprecazioni. L’editore la recepisce come una parola sporca, da eliminare. Intanto il tempo passa e il libro non esce. Ora l’editore ha trovato da ridire su An Encounter, poi comunica che il racconto Two Gallants sarà da lui omesso dal libro. Esasperato, Joyce risponde che “cancellare questi punti avrebbe significato ridurre Dubliners ad un uovo senza sale”. A giugno Richards chiede nuove concessioni e il 9 luglio Joyce gli spedisce l’intero manoscritto fortemente rimaneggiato. Queste incertezze pesano anche su Stephen Hero, arenatosi al XXV capitolo. Joyce si sente intrappolato e riversa tutta la sua frustrazione su Trieste, odiando questa città: deve andarsene …e non deve aspettare tanto a farlo: Giuseppe Bertelli, il vice direttore della Berlitz triestina, è scappato con la cassa dell’istituto e Artifoni, complice il calo estivo dei clienti, si vede costretto a rinunciare ad uno dei fratelli Joyce. James prende a consultare le pagine degli annunci economici della Tribuna di Roma dove scopre che la Banca Nast, Kolb & Schumacher cerca un impiegato con buona conoscenza della lingua inglese. James risponde all’inserzione, passa il colloquio e alla fine di luglio - lasciandosi alle spalle una serie di debiti, saldati da suo fratello - arriva a Roma con moglie e figlio.
1906, 31 luglio, martedì, ore 21,30: la famiglia Joyce entra nella casa della signora Dufour, via Frattina 52, terzo piano, dove hanno affittato una stanza. Scrive Ellmann, op. cit., pp. 272-3: «Il 1 agosto si recò, per un colloquio decisivo, alla sede della banca, che sorgeva quasi all’angolo fra piazza Colonna e via s. Claudio. Schumacher, che, a quanto risultò, era non soltanto banchiere, ma anche console dell’impero austro-ungarico, lo ricevette con discreta cordialità. Assomigliava a un “Ben Jonson col pancione”, e camminava sbilenco, con un berretto sul capo. Chiese a Joyce che età avesse, chi fosse suo padre e in quali rapporti d’amicizia la sua famiglia fosse con il Lord Mayor di Dublino. Soddisfatto delle risposte, gli versò 65 lire come rimborso delle spese di viaggio, e gli concesse un acconto di 100 lire sulla prima mensilità, che era di 250 lire. […] Quanto ai colleghi, questi infastidirono Joyce fin dall’inizio. Soffrivano sempre di disturbi ai testicoli (“rotti, gonfi, ecc.”) o al sedere - raccontò Joyce a Stanislaus - e non facevano altro che descrivere minuziosamente i loro malanni. […] Per un mese e mezzo Joyce rimase nel reparto corrispondenza. Era un lavoro insipido, gravoso. Doveva scrivere dalle duecento alle duecentocinquanta lettere al giorno, cominciando alle 8,30 di mattina e terminando alle 19,30 e spesso anche più tardi, con due ore di libertà per il pranzo. La conseguenza immediata fu che consumò presto l’unico paio di pantaloni che aveva. Vi fece applicare due grosse toppe, e per nasconderle fu costretto a indossare il cappotto anche col caldo d’agosto. A Stanislaus, che glieli aveva prestati, comunicò afflitto che erano stati fatti con una stoffa troppo delicata per un lavoro continuo al tavolino. A settembre la sua bravura ricevette un piccolo riconoscimento, giacché - forse a causa del soprabito - fu trasferito al banco degli incassi, dove il lavoro era più facile e di maggior responsabilità. Ma qui, dovendo scontare assegni a importanti clienti, dovette comprarsi un paio di pantaloni. Nei rapporti con quell’insolito impiegato la banca commise il grosso errore di corrispondergli lo stipendio una volta al mese, invece che ogni settimana o magari giorno per giorno come aveva fatto la scuola Berlitz. Joyce era incapace di conservare il denaro, r inevitabilmente ricominciò a chiedere aiuto a Stanislaus. Il 16 agosto aveva già dato fondo a tutta la somma che la banca gli aveva anticipato. […] Stanislaus era furibondo. Stava ancora saldando i debiti contratti dal fratello a Trieste e ora doveva addossarsene altri.»
Causa il suo dispendioso tenore di vita, ben presto Joyce è costretto a cercarsi un secondo lavoro, dando lezioni private ad un certo Terzini ma è solo dopo aver risposto ad una inserzione della Tribuna, che il 20 di novembre Joyce inizia a dare lezioni d’inglese all’École des Languages. Nonostante questi nuovi introiti niente cambiava in famiglia e Stanislaus viene sommerso di richieste di denaro “in prestito”. Si aggiunga: il 12 novembre, non sopportando di avere in giro per casa quell’uomo sempre ubriaco, la signora Dufour lo invita a sloggiare alla fine del mese. Joyce pensa che come sempre tutto si accomoderà ma stavolta ha fatto male i suoi conti e alle 23 e 30 del 3 dicembre lui e la sua famiglia si trovano in mezzo alla strada. Presi alla sprovvista, sotto la pioggia, i Joyce affittano una carrozza e prendono a girare in cerca di un albergo, dove restano quattro notti. Dopo aver passato due giorni in cerca di camere d’affitto, il 7 dicembre trovano due stanzette al quinto (o quarto?) piano di via Monte Brianzo 51, prendendone possesso il giorno dopo. Il letto è piccolo e i due devono coricarsi testa-piedi, come Bloom e Molly in Ulysses.
Un passo indietro nei mesi. Verso la fine di settembre Richards scrive a Joyce che non può pubblicare Dubliners. A questo punto l’autore intende sciogliere il contratto con l’editore e si rivolge ad un ad un avvocato. Questi gli consiglia di scrivere all’editore per tentare di convincerlo, ma il 19 ottobre Richard risponde confermando la sua decisione. Il 20 novembre Joyce offre Dubliners ad un altro editore, John Long. In mezzo a tutto questo trambusto il 30 settembre 1906 James aveva trovato modo di accennare a Stanislaus la sua intenzione di dedicarsi alla stesura di un romanzo che avrebbe chiamato Ulysses, imperniato sulla figura di un ebreo di Dublino, bruno e cornuto, prendendo a seguire le cronache del divorzio di una coppia di ebrei di Dublino e occupandosi delle teorie antisemitiche di Guglielmo Ferrero. Il 9 ottobre il suo amico Symon, a cui aveva inviata una lettera con richiesta d’aiuto, chiede all’editore Elkin Mathews se lo interessava un libro di poesie scritto “da un giovane irlandese che si chiama J. A. Joyce. Non appartiene al Movimento celtico, e Yeats, benché ne riconosca la bravura, ce l’ha un po’ con lui perché ha attaccato il Movimento”. A dirla tutta, Joyce non solo ha attaccato il Movimento celtico, ma ha anche scritto che Yeats è “un idiota noioso, completamente staccato da quel popolo irlandese al quale si appella come autore della Countess Cathleen.” Mathews accetta di visionare il manoscritto di Chamber Music e il 17 gennaio 1907 Joyce riceve un contratto di pubblicazione, seguito a febbraio dalle prime bozze.
1907, 6 febbraio: James scrive a suo fratello che Ulysses non è andato più avanti del titolo. In crisi depressiva per le ingenti bevute e stressato da Nora che vuol cambiar casa, ai primi di febbraio James disdetta l’appartamento e versa la caparra per una stanza non molto lontana. Il periodo è frenetico e tutto felicemente precipita: illudendosi di aver trovato un altro alunno privato Joyce lascia l’Ècole des Languages e sperperato già l’11 febbraio l’intero stipendio percepito dieci giorni prima nell’acquisto di abiti e cappelli (con richiesta a Stanislaus di dieci corone), Joyce decide che deve scappare da Roma, informando la banca che lascerà l’impiego alla fine del mese (ma rimane fino al 5 marzo). In cerca di una nuova città pensa di trasferirsi a Marsiglia ma poi il 15 febbraio James informa suo fratello del suo imminente rientro a Trieste, ammettendo che “il viaggio a Roma era stato una coglionieria”. Stanislaus ne parla con Artifoni e questo rifiuta di riprenderlo alle sue dipendenze. Si aggiunga: il 21 febbraio John Long rifiuta di pubblicare Dubliners e Nora è di nuovo incinta.
Il 7 marzo 1907 Joyce scrive a suo fratello “arrivo otto trova stanza”. Tanto per non cambiare arriva a Trieste senza il becco di un quattrino in tasca, anche perché la notte prima della partenza, pieno di alcol, ha la bella idea di mostrare a due avventori di un bar l’ultimo stipendio ricevuto dalla banca. Uscito in strada, i due lo buttano e terra e gli rubano il portafogli con le duecento corone (e nella confusione che ne segue rischia anche di essere arrestato).
Al beato martire Stanislaus non resta che procurare a suo fratello una stanza presso la sua stessa affittacamere.

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