lunedì 28 dicembre 2015

Valadon, Utrillo, Utter


Montmartre è una vecchia puttana abile nel vendersi a caro prezzo ai turisti di bocca buona, riservando i dolci momenti d’intimità ai più cari amici.
Sono passati più di quarant’anni dalla prima volta che sono salito sulla butte: almeno due vite fa, visto il rapido scorrere del tempo in quest’era tecnologica. Conservo ricordi di fredde serate invernali, le strade deserte e semibuie, cercando luoghi tranquilli dove cenare - e vecchie locande col ceppo nel camino acceso e una buona cucina famigliare non erano difficili da scovare. Di place du Tertre ho una visione chiara e precisa stampata nella mente: senza tante grida, sotto gli alberi due uomini si scazzottavano di santa ragione.
Eppure, sebbene negli anni Settanta la butte non fosse ancora invasa dal turismo becero quanto lo è oggi, ai miei occhi appariva già un corpo morto: il Bateau-Lavoir era andato in fumo nel 1970, i mulini a vento abbattuti, le vecchie strade scavate nel gesso ricoperte d’asfalto, la bohème estinta.
Oggi lassù ci salgo di rado, se non per cercare vecchie targhe che ricordano gli indirizzi abitati da scrittori e pittori che hanno lasciato un profondo solco nella nostra civiltà. Solo le targhe, però, perché le stalle allora popolate da gente come Picasso o Max Jacob ormai non esistono più, sostituite da anonimi palazzi - e di molti dei vecchi locali pubblici è rimasto soltanto il nome, talvolta nemmeno all’indirizzo giusto.
Come sempre, prima di partire mi documento. Per comprendere Montmartre mi sono procurato un certo numero di libri, tutti facilmente reperibili in rete e scaricabili in formato pdf. Per anzianità è giusto iniziare con le Lettres de Montmartre par Mr. Jeannot Georgin, a Londres 1750. A seguire: L’abbaye royale de Montmartre publié et annoté par Édouard Barthelemy, Paris 1883; Montmartre di Georges Renault & Henri Chateau, Paris 1897; Paris Atlas, testo di Fernand Bournon, con 28 carte e 595 riproduzioni fotografiche, Paris 1900; The Illustrators of Montmartre di Frank L. Emanuel, London 1904; Curiosité Historiques et Pittoresques du Vieux Montmartre di Charles Sellier, Paris 1904; Le vieux Montmartre con testo e disegni di André Warnod, Paris 1915 - a cui aggiungo, buon ultimo, un lavoro di sua figlia Jeanine: Le Bateau-Lavoir, Paris 1986.


Tra tutte le vie di Montmartre poche eguagliano la rue Cortot per il numero di artisti che vi hanno abitato. Collegante rue du Mont-Cenis con rue des Saules, la vecchia rue Saint-Jean oggi dedicata allo scultore parigino Jean-Baptiste-Camille Cortot (1796-1843) fino al 1899 di notte era rischiarata da una sola lanterna ad olio, alla faccia della Ville-lumière.
Qui non intendo elencare tutti i nomi degli artisti e il numero corrispondente al loro studio o alla loro abitazione, limitandomi a un solo recapito: il numero 12 - un tempo 16, rue St Jean - dove si trova la Maison Rosimond, oggi Musée du Vieux Montmartre. Oltre che all'attore Claude Rose - o Roze, o de la Rose, detto Rosimond ma anche Jean-Baptiste Du Mesnil, un allievo di Molière e come lui morto sulla scena -, a questo indirizzo hanno abitato e lavorato Pierre-Auguste Renoir, Vincent Van Gogh, Paul Gauguin, Raoul Dufy, Francisque Poulbot, Pierre Reverdy, André Antoine, Maximilien Luce, Léon Bloy e altri ancora.
Tra il 1912 e il 1926 il primo piano della casa che dà sul giardino diventa la residenza-studio del “trio infernale”: Suzanne Valadon, suo figlio Maurice - nato dall’incontro con lo spagnolo Miquel Utrillo - e André Utter, il compagno di Suzanne (più giovane di suo figlio). Tre pittori a cui la vita ha regalato alti e bassi incredibili, momenti raccontati con leggerezza da John Storm, Nel cuore di Montmartre. La vita di Suzanne Valadon, Castelvecchi 2015, a cui rinvio per ogni dettaglio.


Un secondo libro - stavolta più vicino alla Valadon artista, arricchito da molte illustrazioni di quadri e disegni - è Suzanne Valadon, scritto da Janine Warnod e stampato per Flammarion nel 1981.


Passano gli anni, scende l’oblio e anche la casa-studio che fu abitata da Suzanne, André e Maurice subisce le ingiurie del tempo, rovina che si prolunga fino a tempi a noi vicini, quando le autorità cittadine decidono di mettervi mano e dopo dieci anni di complessi restauri il 17 ottobre 2014 lo stabile riapre alle visite, riproponendo i locali e lo studio arredati con mobili d’epoca, ricreando l’arredamento originale così come conservato dalle immagini fotografiche.
E arriviamo ad oggi. In occasione del 150mo anniversario della nascita di Suzanne - figlia di padre ignoto, nata a Bessines-sur-Gartempe il 23 settembre 1865 e battezzata col nome di Marié-Clementine Valadon, il cognome della madre - le mura di questa casa-atelier ospitano la grande mostra che porta il titolo Suzanne Valadon, Maurice Utrillo, André Utter, la cui visita è stata prorogata fino al 13 marzo 2016.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
5 novembre 2015

































Utrillo, Valadon e Utter, 1919
Valadon, Utter e Utrillo, 1920




mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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27, rue de Fleurus raccontato da Alice B. Toklas


Come di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori, scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de Fleurus.
Anche quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte, ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare con mie parole quanto letto altrove.
E qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto a Parigi nel 1954.
In Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.  

Piatti per artisti

Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.

~ Branzino Picasso ~

Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.

Mi sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo in onore di Matisse invece che mio?

Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione dell’inevitabile filetto alla sauce Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di mangiare molti spinaci e il soufflé era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele, disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.

[…] Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche: di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich, d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher Torte.

[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein. Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo, la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno chiesi alla concierge di salire nella sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa, lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha, da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici, annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.

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