mercoledì 21 maggio 2014

Il mozarabico (1)


Malgrado le scorrette dicerie della concorrenza, la dominazione araba della Spagna non fu soltanto un periodo di sangue versato dai “nostri” martiri, ma piuttosto un’epoca di grandi progressi scientifici, soprattutto nel campo della medicina e della matematica. Inoltre, in cambio di un affitto per i terreni, tributi e imposte personali, i musulmani assicuravano l’assoluta libertà di culto - compresa la costruzione dei templi - e la protezione militare agli ahl al-Kitab, ovvero ai “popoli del Libro”, gli ebrei e i cristiani presenti sul proprio territorio [NOTA. In epoca ottomana questa istituzione sarà chiamata “millet”]. Sarà questo contesto culturale ad agevolare, tra il VII e il X secolo, la nascita di un modo nuovo di erigere chiese e conventi - detto stile mozarábico - dove, in un unicum religioso, le ritualità tipiche del cristianesimo e dell’islam potevano pacificamente convivere. Nella sanguinosissima storia delle religioni monoteiste, questa resterà l’unica occasione in cui lo stesso Dio, pur con nomi e riti diversi, potrà essere venerato insieme, in un’unica chiesa, dalle due confessioni. Düra minga, si diceva sconsolatamente a Milano, e con ragione.


Un primo esempio d’architettura mozarábica è il monastero di San Miguel de Escalada. Dopo tanta strada, la sorpresa: causa lavori in corso l’accesso al tempio è proibito. Faccio buon viso a cattiva sorte e prendo ad arrampicarmi sul fianco della collina che costeggia il Rio Esla e da lì ammiro, tra le impalcature metalliche, l’estrema leggerezza del lungo porticato di questo manufatto, che le colonne suddividono in dodici arcate di perfetto stile islamico. Nel muro occidentale, quello che protegge il portico dai venti dell’Oceano, si apre un’elegante finestra a duplice apertura a ferro di cavallo, con una colonnina centrale ornata da fregi di tradizione islamica. La costruzione di questo monastero risale al decimo secolo, periodo in cui il regno di Léon era attraversato - volente o nolente - dalle evoluzione politiche e militari degli Stati confinanti. A nord si andavano formando i primi embrioni della reconquista (conquista, in verità) cristiana. Ad occidente il léonese confinava con la Galizia, antica terra celtica conquistata dagli eserciti di Roma, a cui erano seguiti gli Svevi, i Visigoti, gli Arabi e gli Asturiani. Verso oriente, in seguito all’invenzione (politica più che religiosa) del camino di Santiago, si era aperta una finestra sul mondo europeo. Infine - e soprattutto - il sud, dominato da quell’Islam spagnolo che Jacques Fontaine ha così stupendamente sintetizzato: “terribile per le sue armi e affascinante per la sua civiltà”.
La storia ufficiale ci informa che questo grandioso edificio - un rettangolo largo 13,50 metri e lungo 22, che tre navate e tre archi interni suddividono in nove parti - fu “edificato in soli dodici mesi e consacrato dall’arcivescovo Gennadio il dodicesimo giorno del dodicesimo mese dell’anno 951 dell’era ispanica”. Potenza dei numeri.

La seconda chiesa è la più piccola ma non per questo la meno preziosa. Già trovarla è un piacevole calvario: a ripide salite seguono altrettanto ripide discese; tratti boscosi cedono sovente il posto a verdi campi, dove pecore, cavalli e vacche vagano brucando i teneri pascoli primaverili. La ricerca del manufatto sembra complicarsi quand’ecco - all’improvviso ed inaspettati - appaiono due ragazzi con le chiavi in mano! Insieme prendiamo per un sentiero laterale e pochi minuti dopo siamo all’incontro col miraggio: San Román de Moroso è lì davanti a noi e il suo colore bruno contrasta col verde smeraldo dell’erba. Nessuno conosce con certezza quando venne eretto questo cenobio; il primo documento che ne cita il nome risale al 1119, ed è la lettera con cui la regina (doña) Urraca fa dono di questa costruzione ai monaci di Santo Domingo de Silos. La struttura è robusta, composta di due locali a base quadrata, il più alto davanti, il più piccolo dietro. Eccezionalmente, la porta d’ingresso a “serratura” si apre sul lato nord, causa la morfologia del territorio. L’interno è buio e disadorno. Ma è all’esterno dove la capacità artistica del maestro costruttore si è maggiormente sviluppata: il tetto è sorretto da una serie di modiglioni scolpiti - nove per lato sul locale più grande, sei sull’altro - con simboli circolari tipici della cultura orientale, il cui carattere pagano fu dapprima cristianizzato dai Visigoti e poi adottato dai mozarábi. Si possono ammirare motivi floreali a quattro (il numero dei pilastri che si riteneva sorreggessero la Terra), a sei (numero sacro della Mesopotamia riadattato a simbolo del Crismòn, il monogramma greco del Xristòs o Messia) e a otto petali (simbologia celestiale dell’ottavo giorno divino e della rinascita), oppure altri motivi geometrici quali il cerchio, cristiana rappresentazione della sfera celeste (non terrestre, che doveva essere quadrata perché così era scritto nei testi “sacri”) o lo swastika, qui simbolo del Cristo in quanto novello e raggiante “Sol Invictus”. Appoggiata al suolo - a un metro dalla porta - per lungo tempo una pietra scavata è servita da sarcofago agli eremiti passati a miglior vita.
                                                                                                                                         [continua, 1/3]


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© Testo e fotografie (da slides) di Giancarlo Mauri

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