sabato 31 maggio 2014

Il Mani, Patrick Leigh Fermor e Bruce Chatwin


IL MANI. Per la gente del Peloponneso Mani è il nome dello stretto dito di terra che separa Kalamata e Gythio da Capo Tenaron. Alta sul mare domina la catena montuosa del Taygetos; per secoli, le sue impervie forre hanno offerto ai manioti riparo dai barbari arrivati dal mare. È terra arida, da capre, e il poco spazio disponibile ha costretto a vivere in stretta coabitazione, un’ottima ragione per scatenare feroci lotte tra clan, a turno assediati all’interno delle case-torri che affratellano queste terre alla caucasica Svanezia.
I primitivi abitati del Mani si sono sviluppati in collina e Kardamyli - località tanto vecchia da essere citata da Omero - non fa eccezione. Oggi l’antica cittadella è rappresentata dal complesso eretto a cavallo tra il 17° e il 18° secolo dal kapitanios Panayotis Troupakis: un palazzo, la chiesa di Agios Spiridon e la piazza fortificata. Poco lontano due tombe - di cui una con ossa umane in vista - e la fonte dell’acqua.
Estremo sud del Mani “interno” - nonché seconda punta continentale più meridionale d’Europa - Capo Tenaron (Capo Matapan, per gli italiani) propone le sue gemme: il minuscolo tempio di Poseidone e un mitico ingresso all’oltretomba.

PATRICK LEIGH FERMOR. La carriera di “viaggiatore” di Patrick Leigh Fermor comincia il 9 dicembre 1933, quando lui - nato l’11 febbraio 1915 - è ancora nel diciottesimo anno d’età. Messo in spalla lo zaino che fu di Mark Ogilvie-Grant - compagno di viaggio di Robert Byron nel viaggio sul Monte Athos - e vestito un vecchio cappotto militare, dal Corno d’Olanda (Hoek van Holland) s’incammina verso Costantinopoli (come si chiamava allora) per “cambiare scenario, lasciare Londra e l’Inghilterra e attraversare l’Europa come un vagabondo - o, come dissi tra me e me, come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante, un cavaliere povero o leroe di L’amore e il chiostro!”.
Se la prende comoda. A casa ritorna nel gennaio del 1937, dopo aver attraversato l’Olanda, la Germania che iniziava a innamorarsi di Hitler, la pianura ungherese, la Moldavia, i Carpazi, calpestato le strade della capitale turca e frequentato i monasteri del Monte Athos (gennaio-febbraio 1935).
Nel ’39 è tempo di guerra. Avendo studiato greco antico, l’Intelligence britannica arruola Leigh Fermor col grado di ufficiale di collegamento dislocato presso il quartier generale greco. Paracadutato a Creta, con l’aiuto di William Stanley Moss e di alcuni partigiani di Anogia, il maggiore Fermor (Michalis per i suoi amici greci) organizza un colpo di mano che ha dell’incredibile: vestito da soldato tedesco si mette in mezzo alla strada e poco prima di Knossòs blocca l’auto del Generalmajor Kreipe, il comandante tedesco della divisione Sebastopol. Con questa coraggiosa e incruenta cattura, Leigh Fermor entra nel cuore dei greci, popolo che a guerra conclusa non esita a conferirgli importanti onorificenze. Londra gli riserva il titolo di baronetto.
A suo modo, anche Hollywood decide di ricordare le gesta di Fermor a Creta: nel 1957 esce sugli schermi Night Ambush (Colpo di mano a Creta in Italia), con Dirk Bogarde nella parte di PLF, un film tratto da Ill Met By Moonlight, libro scritto dal citato Moss e pubblicato nel 1950 da George G. Harrap. Per la sua prima edizione italiana si deve aspettare il 2018, quando esce da Adelphi col titolo Brutti incontri al chiaro di luna, sottotitolo: Il rapimento del generale Kreipe.
Nel dopoguerra, Leigh Fermor riprende a vagabondare, stavolta in compagnia di sua moglie Joan. Sono di questo periodo le sue escursioni nel Mani - in parte a piedi e in parte su caicchi - e fra le isole dei Caraibi.
Tra un viaggio e l’altro trova il tempo di raccontare le sue esperienze in libri ormai considerati dei classici della letteratura. Al pubblico italiano Fermor arriva col contagocce: da Garzanti esce nel 1957 L’albero del viaggiatore (orrendamente tradotto) e poi basta fino al 2004, anno in cui Adelphi pubblica Mani. Viaggi nel Peloponneso (uscito in lingua originale nel 1958), riepilogo di una serie di viaggi fra terra e mare, realtà e storia, miti e leggende.
Cinque anni dopo da Adelphi esce Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli. Da Hoek van Holland al medio Danubio, traduzione di A Time of Gifts (1977). Il continuo di questo viaggio, Between the Woods and the Water (1986) Adelphi lo pubblica nel 2013 col titolo: Tra i boschi e l’acqua. A piedi fino a Costantinopoli. Dal medio Danubio alle Porte di ferro. La trilogia si conclude nell’aprile del 2015, quando Adelphi pubblica La strada interrotta. Dalle Porte di ferro al Monte Athos (titolo originale: The Broken Road. From the Iron Gates to Mount Athos), con una interessante Introduzione di Colin Thubron e Artemis Cooper datata primavera 2013.
Buon ultimo, nel giugno 2021 da Adelphi esce Rumelia. Viaggi nella Grecia del Nord, traduzione italiana di Roumeli. Travels in Northern Greece del 1966.

BRUCE CHATWIN. A Nizza, il 18 gennaio 1989 la morte ci ha privato della stringata prosa di Bruce Chatwin. L’accattivante descrizione di alcuni dei suoi viaggi - con grande utilizzo della fantasia e tanto, tanto lavoro in sede editoriale, come raccontato dal suo editor Susannah Clapp in Con Chatwin, Adelphi 1998 (da leggere) - l’ha fatto diventare, suo malgrado, l’icona dell’homo viator dedito alla ricerca e conoscenza, vagante per il mondo con zaino, scarponi, penna e moleskine da riempire con appunti e disegni.
Scrive: “la vera casa dell’uomo non è la casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”. Si sposta attraverso i continenti “con irrequieta erranza e con l’orrore del domicilio”. Per Chatwin i viaggi “non arricchiscono la mente, ma la creano”. Poi, nel privato, si riempie di debiti per acquistare case in campagna e appartamenti in città.
Diventa famoso col libro In Patagonia, uscito in Inghilterra il 14 ottobre 1977. Il libro successivo, Il viceré di Ouidah, appare il 23 ottobre 1980, anno orribile per Chatwin: stancatasi del ménage omosessuale del marito, Elizabeth, la moglie americana, lo caccia di casa, rifiutandogli, perché cattolica, il divorzio. Si aggiunga: le mani bucate di Bruce rendono necessaria la vendita di Holwell Farm, la casa acquistata nel 1966 grazie all’aiuto dei genitori di lui, di lei e di tanti debiti con le banche. Ci riescono nel 1981, in cambio di 170 mila sterline: Diedi a Bruce 50.000 dollari ricavati dalla vendita per comperare il suo appartamento di Eaton Place (Londra) dice Elizabeth. Lei opta per una nuova casa di campagna - Homer End, Ipdsen, Oxford - dove andare vivere con le sue amate pecore mentre lui, staccato un grosso assegno al suo architetto John Pawson perché gli sistemi l’appartamento londinese, vola in Kenya con Donald Richards, il suo compagno.
Sulla collina nera, il libro successivo, esce nell’autunno del 1982 e a novembre vince il premio Withbread per la categoria romanzo d’esordio. Decisione discutibile: i giudici non avevano considerato In Patagonia e Il viceré d’Ouidah opere narrative. Subito dopo Chatwin entra al St. Thomas’s Hospital per un intervento chirurgico, dovuto forse alle emorroidi o connesso al suo “orrendo disturbo di pancia” che da tempo l’affligge. Ne esce fortemente debilitato e per recuperare le forze il più lontano possibile dall’odiata Inghilterra il 19 dicembre raduna i fogli di Alternativa nomade e parte per l’Australia.
Sempre alla ricerca di un luogo tranquillo dove continuare la stesura del libro australiano, nel mese di gennaio del 1984 sverna nel sud, in Grecia. L’appartamento che Charles Haldeman, un amico americano, aveva a La Canea non è più disponibile (mentre Charles era ad Atene, a La Canea il suo ragazzo, un bellissimo giovane cretese, presa un’accetta aveva spaccato la testa ad Allen Bole, un omosessuale americano amico di Chatwin) quindi è necessario spostarsi altrove. Non molto distante, nel Peloponneso, abitano Patrick e Joan Leigh Fermor, ed è da loro che Bruce cerca e trova gratuita ospitalità.
In verità, nell’84 a Kardamyli Bruce ci rimane per poche settimane - a febbraio è già in Sud Africa, a Pretoria, ospite di Bob Brain. Ben più lunga è la sua permanenza nell’anno successivo. Come sempre arriva verso la fine di gennaio e per due mesi è ospite nella casa dei Fermor. Buoni sì, ma non coglioni recita un vecchio adagio - o per meglio dire, come sbottò un nobile spagnolo, amante di Bruce: ha la fama di grande viaggiatore, ma quando ti si piazza in casa poi non lo mandi più via - nel mese di aprile Chatwin trasloca all’Hotel Theano, una struttura distante alcune centinaia di metri da casa Fermor. Nella sua stanza circondata da ulivi e cipressi e da cui sente la risacca del mare ogni giorno scrive fino alle 14, quando depone la penna per incamminarsi sulle pendici del Taygetos in compagnia di Paddy. Di norma Bruce evita di camminare con persone incapaci di tenere il suo passo veloce, ma non è così con Fermor, di cui vuole sempre restare al fianco perché da lui desidera imparare, scrivendo sui taccuini ogni citazione uscita dalla bocca del collega scrittore - e una di queste, salvitur ambulando (lo si risolve camminando), diventa un suo dogma. Di queste lezioni ambulanti ne farà buon uso in Le Vie dei Canti, il titolo del libro australiano uscito il 25 giugno 1987.
Ed è durante una di queste gite che i due, esplorando delle gole calcaree, s’imbattono in una sghimbescia chiesa bizantina costruita su di uno sperone roccioso. Tutt’intorno vecchi ulivi non lesinano l’ombra. Bruce se ne innamora - “il più bel posto che si possa immaginare” scrive - e decide di farlo suo. Ci è rimasto per sempre.

EPILOGO. Positivo all’HIV, Bruce trascorre gli anni successivi tra ricoveri ospedalieri e cure a domicilio, costretto su di una sedia a rotelle e amorevolmente assistito da Elizabeth, con cui si era riappacificato complice un trekking nel Khumbu. Siamo alla fine. Scrive Nicholas Shakespeare, il biografo di Bruce: Chatwin peggiorò rapidamente. Domenica 15 gennaio, ultimo giorno in cui rimase cosciente, trascorse la maggior parte del tempo disteso sulla terrazza. … A notte fonda iniziò a emettere un terribile suono. Gli dissi: “Bruce, Bruce, gira la testa”, ma non era più cosciente. Era entrato in coma. Non riprese più conoscenza. Fu trasportato in ambulanza in un ospedale pubblico di Nizza (i Chatwin alloggiavano nello Château de Seillans, un forte dell’XI secolo di proprietà della scrittrice Shirley Conran, amica di Bruce), dove morì all’1:30 di mercoledì 18 gennaio, quattro mesi prima di compiere 49 anni.
Il 20 gennaio Elizabeth lo fece cremare a Nizza. Feci dire una messa greca al forno crematorio, una messa nella mia chiesa di Watlington e una messa commemorativa nella cattedrale greca ortodossa di Santa Sofia, a Bayswater, cui parteciparono tutti.

Tempo dopo Elizabeth ritorna dai Fermor portandosi appresso l’urna delle ceneri, chiedendo a Patrick il favore di andarle a seppellire in quell’angolo del Peloponneso da lui tanto amato. L’amico scava con una pala e versa le ceneri ai piedi di un ulivo. Poi ricopre il tutto con la terra. Nessun segno esterno disturba l’eterno riposo di Bruce. Sono poche le persone che conoscono l’albero-monumento di Chatwin e a loro compete eseguire una volontà del defunto: venire qui per un allegro picnic e versare un bicchiere di retsina sopra le sue ceneri.

NEL MANI, 50 ANNI DOPO I FERMOR
di Daniella Forestan

2005. Dopo aver letto Mani. Viaggi nel Peloponneso, Giancarlo decide di andare a ripercorrere gli itinerari dei Fermor. E così, mentre io vago solitaria in Spagna sul Camino Francés, lui parte alla volta del Peloponneso dove, libro alla mano, segue passo dopo passo le vicende narrate.
In quegli stessi giorni Fermor si trova nella sua casa maniota. Ben sapendo che Leigh Fermor è nato nel 1915 - dunque novantenne - e informato che è suo desiderio non venire disturbato dagli idioti che per il solo fatto d’aver comprato un suo libro si ritengono autorizzati a piombargli in casa senza chiedere il permesso, un tardo pomeriggio Giancarlo bussa con discrezione alla porta. Ne esce la governante che subito chiarisce: “In questo momento Fermor sta leggendo, e quando lui legge non riceve nessuno”. Scusandosi ancora per l’irruzione, Giancarlo trova lo spazio per presentare il motivo che l’ha spinto nel Mani: seguire le tracce dei Fermor per trarne una delle sue seguitissime conferenze. La signora, burbera ma intelligente, risponde: “Aspetti qui che informo Fermor”. Ritorna sorridente: “Fermor l’aspetta nel suo studio”. Inizia così una loro bella amicizia.

2007. Stavolta a Kardamyli ci sono anch’io. Alloggiamo in una casa presa in affitto, base di partenza per nuove escursioni sul Taygetos.
Leigh Fermor, informato della nostra presenza nel Mani, non manca di chiamarmi sul cellulare per invitarci a pranzo nella sua casa sepolta dal verde e affacciata sul mare: “Quando io e Joan decidemmo di costruire questa casa, qui vi erano solo sterpaglie, tutte strappate con le nostre mani”, m’informa.
Dopo gli aperitivi - e finito il rosso di Breganze - è il momento del dialogo. Gentile e premuroso, Paddy non smette di regalarmi precisi dettagli della sua vita avventurosa, con soste per cantare vecchie canzoni italiane da lui imparate in tempo di guerra. Pezzo forte resta Il capitan della compagnia, da noi eseguito con alcolica maestria. Prima di lasciarci, chiede se siamo già stati da Bruce. No, non l’abbiamo ancora fatto, ma ora abbiamo un motivo in più.

Scarponi ai piedi, di buon mattino attraversiamo Kardamyli seguendo antiche strade in mezzo agli orti e tra alberi di limoni profumati. Il temporale della notte ha lasciato nell’aria un aroma speciale.
Prima di Pano Kardamyli abbiamo salutato un pescatore intento a stendere i polpi da poco pescati: sembrano enormi ragni appesi ai fili. Una donna vestita di nero con in testa il tradizionale cappello di paglia a larghe tese appare e scompare tra cascate di clematis viola. Usciti dal folto della vegetazione scorgiamo le torri fortificate della cittadella, raggruppate intorno alla chiesa di Agios Spiridon e al suo campanile.
La nostra mèta è di certo entusiasmante: stiamo andando a salutare Chatwin, nel posto che Paddy ha rivelato a Giancarlo. La bottiglia di vino è nello zaino.
Per raggiungerlo bisogna innalzarsi non poco su ripidi pendii, in mezzo ad una lussureggiante vegetazione e avvolti da profumi dimenticati di erbe aromatiche.
Lasciata alle spalle la vecchia Kardamyli, il sentiero lambisce quelle che la leggenda vuole siano state le tombe di Castore e Polluce, i fratelli di Elena di Troia.
Mentre saliamo il silenzio e la solitudine ci portano a recuperare una dimensione di vita perduta. In questo paesaggio affacciato sul Mediterraneo i contrasti geografici sono impressionanti. Siamo sulle pendici del Taygetos, montagna che srotola verso l’azzurro mare tappeti di flora dalle svariate sfumature di colori.
Da Agia Sofia la vista spazia sul mare blu cobalto e sui crinali del monte, dove i cipressi, leggeri punti esclamativi - “matitine” le chiamava Chatwin - disegnano profili verde scuro dietro cui si nascondono i radi abitati di queste valli remote. Una sorgente d’acqua ci disseta e i frutti dei gelsi, dolci e succosi, ci ridanno forza.
Dopo un breve pianoro il sentiero si perde, ma l’intuito alpinistico di Giancarlo trova subito una “direttissima”. Una traccia s’inerpica verticale tra erbe odorose ma sempre più pungenti; più sopra, a loro subentra una foresta di odiose ortiche. Il mio spirito romantico vacilla non poco.
Sembra di non arrivare mai, ma ecco spuntare il tetto di una casa, poi un’altra... Isolata sul suo sperone roccioso appare la chiesetta attorniata dagli ulivi: come già detto, sotto uno di questi, senza lapide né segno alcuno, sono state sparse le ceneri di Bruce Chatwin.
Ci sediamo a ridosso della sghimbescia struttura bizantina. Mangiamo pane e frutta e beviamo retsina, condividendola con Bruce, che sentiamo presente in questo luogo da lui tanto amato.
Non molto lontano una donna raccoglie erbe che definisce miracolose. Non ci va di dubitarne. Ammiriamo il volo di un rapace, il cui grido rompe il silenzio.
Torniamo al mare per un’altra via, non dimenticando di passare da Paddy per informarlo della missione compiuta.


Patrick Leigh Fermor ci ha lasciati il 10 giugno 2010, all’età di 96 anni. Sulla lapide tombale di Joan aveva fatto incidere il desiderata d’origine greca: Ti sia lieve la terra. Sulla sua, lettere in greco antico affermano che lui, Patrick Leigh Fermor, Era più greco di un greco.

© testo e foto di Giancarlo Mauri
Nota: per ovvie ragioni nessuna fotografia è associabile
al reale luogo di sepoltura delle ceneri
di Bruce Chatwin

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

La casa di Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor nel suo studio


Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor e Daniella Forestan


Le inventate tombe di Castore e Polluce



Agia Sofia






Nel Mani interno

Capo Tenaron


mercoledì 21 maggio 2014

Il mozarabico (3)


Alto su di un monticello, l’eremo dedicato a San Baudelio de Berlanga - il popolare martire di Nîmes, in Francia - appare come un triste cubo di pietra. Piove forte, il vento impazza. Scavate nel suolo roccioso, le antiche tombe della necropoli medievale sono piene d’acqua. Puntuale, alle sedici arriva il custode. Oltrepassata l’araba porta a ferro di cavallo (o a serratura) appare l’incredibile: all’altezza del soffitto, un pilastro centrale apre i suoi rami a mo’ di palma, l’albero paradisiaco sacro al Dio del Qur’an ma anche - un tempo - simbolo della croce. Sui vecchi muri restano le rosse tracce degli affreschi che un tempo valsero a questo isolato eremo il titolo di Sixtina de Castilla: un uomo armato di arco e freccia caccia il cervo; un altro, a cavallo, manda i suoi cani ad inseguire due lepri; un falconiere posa in sella ad un donchisciottesco ronzino. Sul tronco della palma vi è raffigurato un uomo, mentre alla sua destra ve n’è un secondo coperto da uno scudo rotondo: “san Baudelio cristiano e san Baudelio musulmano” suggerisce il custode. “Come storico debbo riferire ciò che mi vien detto, ma non ho l’obbligo di crederci” ci insegna Erodoto. Ancora: un dromedario, un elefante, altri due cani in posizione verticale, un orso. E poi soggetti biblici quali le nozze di Cana, il Cristo che cura il cieco, le tre Marie davanti al sepolcro. I dipinti originali, staccati nel 1922 da un esperto appositamente arrivato dall’Italia, hanno raggiunto gli Stati Uniti. “Ora sono a New York, Boston, Cincinnati e Indianapolis” dice il custode. “All’epoca, i venti abitanti del vicino villaggio, poveri contadini, si erano rivolti persino all’Alta Corte spagnola per fermare lo scempio, ma il potere dei soldi ha vinto su tutti”.

A destra dell’ingresso, una foresta di pilastri (replica del fitto bosco esterno, ora scomparso) nasconde l’ingresso di una grotta, il luogo dove i primi anacoreti trovarono la loro pace interiore abbracciandosi con devota fede all’archetipo detto Yahwè dagli ebrei, Dio dai cristiani, al-Ilah dai musulmani, Issa (o Isha) dalla Mesopotamia all’India. A pochi metri, una sorgente d’acqua pura li dissetava. Cinque gradini introducono al cubo dov’è l’altare per il rito cristiano: è la chiesa mediana, già non più sulla terra ma non ancora in cielo. Una ripida e stretta scala porta al terzo livello, alla chiesa celeste: un cubicolo di un metro quadrato invisibile dal basso, dove un eremita può isolarsi rispetto al già ristretto mondo della chiesa stessa. Un eremo nell’eremo: l’utero generativo della madre-chiesa.

Ma il capolavoro dell’anonimo architetto - certamente di cultura islamica - è lì, ancora una volta non facilmente comprensibile: tra le otto nervature della palma (la cifra perfetta dell’ottavo giorno divino) è stata ricavata una nicchia piccolissima (mistero della Presenza, ma anche estrema sintesi dell’esistenza umana), dove - ipotesi altamente suggestiva ma poco realistica - un umano di emaciata corporatura avrebbe potuto entrare per “sciogliersi” nel Creato. Un gesto estremo; un’auto-immolazione di stampo prettamente orientale, certamente più vicina alla scuola dei mistici jaina che non al clero cristiano. Infatti, alla luce dell’arcaica credenza indiana secondo la quale l’ultimo momento della vita ha una rilevanza decisiva sullo stato dell’individuo nella rinascita successiva, e alla luce dell’insegnamento specificatamente jaino-buddhico sulla possibilità di distruggere il karma con una graduale ritrazione dalle attività fisiche e mentali, non appare certo sorprendente che il misticismo orientale ritenga che la morte ideale sia una forma altamente controllata di deperimento progressivo conseguente al digiuno. Questo processo è noto come morte religiosa (sallekhanā), in cui la pratica ascetica centrale - che consiste nella riduzione dell’assunzione di cibo - viene portata alla sua logica conclusione affinché il corpo venga depurato (sallikhita, “eroso”) dai suoi fattori negativi e affinché, all’avvicinarsi della morte, la mente possa focalizzarsi soltanto sulle questioni spirituali.

Si ritorna all’aperto frastornati. Non si fatica a capire che qui la mistica del numero tre è di casa. «Tre non è razionale, conoscibile; non è la mente a capire il Tre, ma il complesso delle facoltà emotive umane - comprendere con il cuore, si dice. Tale livello di comprensione individuale indica il grado di civilizzazione di una persona: è possibile sapere molto e contemporaneamente comprendere poco. Riconoscere la terza forza significa accettare il bisogno fondamentale di armonizzare gli opposti; pertanto, chi è capace di comprendere la terza forza non è facilmente sviabile dal dogmatismo: sa, infatti, che in questo mondo il vero ed il falso sono relativi, e anche quando sembrano assoluti, come nei sistemi logici, è lo stesso sistema logico ad essere relativo, un’astrazione di una realtà più ampia e complessa» ha scritto J. A. West. Qui, tutto ciò lo si comprende.

Il mozarabico (2)


È venendo da nord, uscendo di nuovo alla luce del sole dopo il lungo e selvaggio orrido scavato dal rio Deva, che più si apprezza questo gioiello dell’arte mozarábica del X secolo: Santa María di Lebeña, regno apparente del numero quattro.

[NOTA. Anche ai tempi di Roma antica questo numero appariva come fondamento e base dell’ordine del mondo, nei quattro elementi, nelle quattro stagioni, o addirittura nelle quattro parti del mondo (secondo l’opinione geografica del tempo); non senza motivo, al termine di quattro anni veniva a cadere il “lustro”; perfino sulla volta del cielo una quadriga di cavalli volava davanti al carro del dio solare, e ai due grandi luminari celesti, il sole e la luna, due altri minori ne furono aggiunti: Lucifero ed Espero, la stella del mattino e quella della sera].

Ad una struttura basale quadrata - romanica, che le colonne visigotiche a loro volta suddividono in dodici sezioni - è appoggiata una seconda parte formata da un rettangolo suddiviso in tre quadrati. Ancora numeri, tanto cari ai primitivi adoratori del Dio unico, ma anche retaggio di spiritualità arcaiche. Quale basamento dell’altare è stata murata una pietra rettangolare d’origine celtica, con al centro un grande disco solare in movimento circondato da altri sei cerchi minori. In basso, due linee rette sovrastanti linee spezzate riportano - così sembra - al periodo preistorico. Dov’è il legame con la mistica araba? Perché ci si ostina a considerare questa chiesetta quale raro esempio sopravvissuto dell’arte mozarábica? Come a San Baudelio, anche qui il segreto è sotto gli occhi, dunque invisibile al profano: tutta la volumetria della chiesa - altezza, larghezza e profondità - è costruita sul modulo-trama 33,33 - il sacro numero della perfezione, lo stesso che i Padri della teologia cristiana hanno imposto quale periodo di vita del Cristo. Tuttavia, questo modulo numerico è una reinterpretazione occidentale dell’ancor più antico numero 108, caro sia ai monaci jaina e del buddhismo tantrico, sia ai brahmana vedici, gli “inventori” del rito religioso fondato sull’intermediazione del clero: la somma delle tre cifre che formano questo numero dà come risultato nove, a sua volta riportabile a tre volte tre. Nei templi dell’India ancor oggi questa simbologia è rappresentata al suolo da un gruppo di 99 “linga” (“marchi” rappresentati da itifalli di pietra) disposti su tre file, più altri nove “linga” - più importanti per grandezza e sempre disposti su tre file - in testata.
Riepilogo: tre file con 33 pietre cadauna, più altre tre file di tre pietre formano il numero 108, ovvero 36 volte il numero tre; ma 36 è dodici volte tre, e dodici è quattro volte tre, esattamente come lo è il modulo 33,33. Non a caso lo stesso modulo - dodici apostoli suddivisi in quattro gruppi di tre (3, 3, il Cristo, 3, 3) - è stato utilizzato da Leonardo per l’Ultima Cena di Milano. Perché lui - è certo - sapeva...

NOTA. Grossolanamente - perché entrare nello specifico non è compito di questo scritto - in India il numero 33 è così formato: se agli 8 Vasu si sommano i 3 prana principali (prana, apana e vyana) si dà origine agli 11 Rudra; aggiungendovi il manas (rappresentato dal Sole), si hanno i 12 Aditya. Assommando a questi numeri (8, 11 e 12) i 2 gemelli Aśvin si ha come risultato 33: il numero perfetto in cui si manifesta il divino.


Modulo trama 33,33

Credo sia qui opportuno introdurre una breve nota sulla qabbalah, parola derivata da un termine ebraico che significa “ricevere [la tradizione orale]”. Sebbene le formulazioni conosciute della qabbalah ebbero origine nel Medioevo nella Spagna meridionale, di fatto esse affondano le proprie radici in tradizioni esoteriche assai più antiche, risalenti al periodo detto dalla storiografia ebraica “del Secondo Tempio” (dal VI secolo a.e.v. al I secolo e.v.). Secondo i qabbalisti, invece, la qabbalah costituisce la parte segreta della rivelazione divina a Mosè sul Monte Sinai. I suoi testi principali sono il Yesifrah (Libro della Creazione) e il Sefer ha-Zohar. Idra rabba (Libro dello Splendore. Grande assemblea), pubblicato per la prima volta nel 1300.
Succintamente, qabbalah è l’insieme delle teorie e delle pratiche del misticismo esoterico ebraico che associa ad ogni nome un valore numerico e ad ogni valore una “vibrazione metafisica” capace di provocare eventi soprannaturali, nata dal desiderio di svelare anche i significati più reconditi del Vecchio Testamento (Torah, “Legge”, o più esattamente: “Istruzione”) che per la religione ebraica è la parola di Adonai [il nome proprio Jahvèh, in quanto ineffabile, è stato ed è tuttora letto dagli ebrei Adonai, e tradotto nel Settanta in Kyrios, “Signore”]. Quindi, ciascuna parola e ciascuna lettera delle parole che compongono la Torah diventano interpretabili secondo diversi livelli interpretativi, e poiché ogni lettera dell’alfabeto ebraico ha anche un valore numerico basato sul sistema decimale, una delle tecniche interpretative più comunemente usate della qabbalah è la numerologia.
Agli specialisti sono note la qabbalah spagnola - nel XII secolo mistici della Catalogna divulgarono nei circoli spagnoli speculazioni qabbalistiche sul male, la salvezza e l’anima - e la qabbalah lurianica - dopo il 1492, anno del forzato esodo degli ebrei dalla Spagna, Yizhaq Luria promosse da Safed, una città della Galilea, nuovi usi e riti. Ma vi fu, anche se poco o niente “reclamizzata”, una qabbalah cristiana. La scoperta del misticismo giudaico da parte dei cristiani cominciò nel 1486, con le traduzioni dei testi qabbalistici approntate dall’ebreo convertito Flavio Mitridate per Giovanni Pico della Mirandola. Fu Pico il primo intellettuale cristiano a riconoscere alla qabbalah valore interpretativo e dignità di scienza antica. I concetti qabbalistici che egli accolse nelle sue Novecento tesi trasformarono una dottrina guardata con sospetto in tema privilegiato del dibattito culturale dell’epoca. Negli insegnamenti segreti del giudaismo il conte della Mirandola cercava conferma alla propria fede cristiana, e pensava che i misteri della sefirot fossero in accordo con le verità evangeliche. Dopo di lui, l’utopia di una qabbalah cristiana fu coltivata dall’umanista tedesco Johannes Reuchlin, e conquistò persino il favore di un cardinale influente come Egidio da Viterbo, generale degli Agostiniani al tempo di Lutero. Il cardinale - che al pari di Pico si faceva copiare e tradurre opere mistiche - fu consapevole dell’importanza dei diagrammi, tanto da commissionare a un esperto amanuense un rotolo qabbalistico “con disegni di vari colori in un foglio grande di carta pecorina”. Più eclettica di quella ebraica nelle sue aspirazioni, la grafica dei qabbalisti cristiani tende a elaborare immagini composite, in cui il misticismo giudaico convive con spunti astrali e con più prepotente iconismo. Dal francescano musico e alchimista Francesco Zorzi, al medico e mago Cornelio Agrippa, al retore e poeta Achille Bocchi, e fino alle ruote mnemoniche di Giordano Bruno e alle mitologie visive di Robert Fludd, l’elemento qabbalistico divenne lievito di cultura visiva in tutta Europa.

Ma la visita non è ancora finita: avendo sviluppato il simbolismo del cubo all’interno, tocca all’aspetto esterno di Santa María di Lebeña essere modulato con le tre chiese ascensionali. Ed infatti tre sono i livelli dei tetti: quello inferiore copre l’ingresso (suddiviso dalle colonne in tre parti), quello intermedio appartiene alla chiesa, il più elevato si innalza al centro (cupola quadrata, ricoperta da un tetto spiovente sui due lati, a frontone greco, dunque triangolare). Poco discosto vi sono due giganteschi alberi, un tasso e un ulivo, che la tradizione vuole siano stati piantati dai primi costruttori della chiesa; sarebbero vecchi, quindi, di oltre mille anni. L’immancabile corso d’acqua sorgiva, un piccolo ombreggiato cimitero e imponenti pareti rocciose completano la geografia di questa preziosa zolla di Spagna.

[continua, 2/3]

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© Testo e fotografie (da slides) di Giancarlo Mauri













Il mozarabico (1)


Malgrado le scorrette dicerie della concorrenza, la dominazione araba della Spagna non fu soltanto un periodo di sangue versato dai “nostri” martiri, ma piuttosto un’epoca di grandi progressi scientifici, soprattutto nel campo della medicina e della matematica. Inoltre, in cambio di un affitto per i terreni, tributi e imposte personali, i musulmani assicuravano l’assoluta libertà di culto - compresa la costruzione dei templi - e la protezione militare agli ahl al-Kitab, ovvero ai “popoli del Libro”, gli ebrei e i cristiani presenti sul proprio territorio [NOTA. In epoca ottomana questa istituzione sarà chiamata “millet”]. Sarà questo contesto culturale ad agevolare, tra il VII e il X secolo, la nascita di un modo nuovo di erigere chiese e conventi - detto stile mozarábico - dove, in un unicum religioso, le ritualità tipiche del cristianesimo e dell’islam potevano pacificamente convivere. Nella sanguinosissima storia delle religioni monoteiste, questa resterà l’unica occasione in cui lo stesso Dio, pur con nomi e riti diversi, potrà essere venerato insieme, in un’unica chiesa, dalle due confessioni. Düra minga, si diceva sconsolatamente a Milano, e con ragione.


Un primo esempio d’architettura mozarábica è il monastero di San Miguel de Escalada. Dopo tanta strada, la sorpresa: causa lavori in corso l’accesso al tempio è proibito. Faccio buon viso a cattiva sorte e prendo ad arrampicarmi sul fianco della collina che costeggia il Rio Esla e da lì ammiro, tra le impalcature metalliche, l’estrema leggerezza del lungo porticato di questo manufatto, che le colonne suddividono in dodici arcate di perfetto stile islamico. Nel muro occidentale, quello che protegge il portico dai venti dell’Oceano, si apre un’elegante finestra a duplice apertura a ferro di cavallo, con una colonnina centrale ornata da fregi di tradizione islamica. La costruzione di questo monastero risale al decimo secolo, periodo in cui il regno di Léon era attraversato - volente o nolente - dalle evoluzione politiche e militari degli Stati confinanti. A nord si andavano formando i primi embrioni della reconquista (conquista, in verità) cristiana. Ad occidente il léonese confinava con la Galizia, antica terra celtica conquistata dagli eserciti di Roma, a cui erano seguiti gli Svevi, i Visigoti, gli Arabi e gli Asturiani. Verso oriente, in seguito all’invenzione (politica più che religiosa) del camino di Santiago, si era aperta una finestra sul mondo europeo. Infine - e soprattutto - il sud, dominato da quell’Islam spagnolo che Jacques Fontaine ha così stupendamente sintetizzato: “terribile per le sue armi e affascinante per la sua civiltà”.
La storia ufficiale ci informa che questo grandioso edificio - un rettangolo largo 13,50 metri e lungo 22, che tre navate e tre archi interni suddividono in nove parti - fu “edificato in soli dodici mesi e consacrato dall’arcivescovo Gennadio il dodicesimo giorno del dodicesimo mese dell’anno 951 dell’era ispanica”. Potenza dei numeri.

La seconda chiesa è la più piccola ma non per questo la meno preziosa. Già trovarla è un piacevole calvario: a ripide salite seguono altrettanto ripide discese; tratti boscosi cedono sovente il posto a verdi campi, dove pecore, cavalli e vacche vagano brucando i teneri pascoli primaverili. La ricerca del manufatto sembra complicarsi quand’ecco - all’improvviso ed inaspettati - appaiono due ragazzi con le chiavi in mano! Insieme prendiamo per un sentiero laterale e pochi minuti dopo siamo all’incontro col miraggio: San Román de Moroso è lì davanti a noi e il suo colore bruno contrasta col verde smeraldo dell’erba. Nessuno conosce con certezza quando venne eretto questo cenobio; il primo documento che ne cita il nome risale al 1119, ed è la lettera con cui la regina (doña) Urraca fa dono di questa costruzione ai monaci di Santo Domingo de Silos. La struttura è robusta, composta di due locali a base quadrata, il più alto davanti, il più piccolo dietro. Eccezionalmente, la porta d’ingresso a “serratura” si apre sul lato nord, causa la morfologia del territorio. L’interno è buio e disadorno. Ma è all’esterno dove la capacità artistica del maestro costruttore si è maggiormente sviluppata: il tetto è sorretto da una serie di modiglioni scolpiti - nove per lato sul locale più grande, sei sull’altro - con simboli circolari tipici della cultura orientale, il cui carattere pagano fu dapprima cristianizzato dai Visigoti e poi adottato dai mozarábi. Si possono ammirare motivi floreali a quattro (il numero dei pilastri che si riteneva sorreggessero la Terra), a sei (numero sacro della Mesopotamia riadattato a simbolo del Crismòn, il monogramma greco del Xristòs o Messia) e a otto petali (simbologia celestiale dell’ottavo giorno divino e della rinascita), oppure altri motivi geometrici quali il cerchio, cristiana rappresentazione della sfera celeste (non terrestre, che doveva essere quadrata perché così era scritto nei testi “sacri”) o lo swastika, qui simbolo del Cristo in quanto novello e raggiante “Sol Invictus”. Appoggiata al suolo - a un metro dalla porta - per lungo tempo una pietra scavata è servita da sarcofago agli eremiti passati a miglior vita.
                                                                                                                                         [continua, 1/3]


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